Buyback per oltre 10 miliardi a Piazza Affari. Lo strumento piace alle aziende, ma conviene anche agli investitori?




Ultim’ora news 14 agosto ore 20

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Fino a pochi anni fa lo schema era abbastanza prevedibile: le aziende europee remuneravano i loro azionisti con i dividendi, quelle americane con i buyback. Adesso invece i confini sono molto meno definiti in quanto l’acquisto di azioni proprie ha fatto breccia anche tra le quotate del Vecchio Continente, che, seppur non abbandonando le cedole, stanno sempre più esplorando le opportunità di questa forma di remunerazione dei soci tanto apprezzata negli Usa.

Come riassume Peter van der Welle, strategist di Robeco, «a livello strutturale dal 2008 le imprese hanno in genere dimostrato una crescente preferenza per gli acquisti di azioni proprie; ciò è dovuto in parte al fatto che i programmi di buyback sono più flessibili (rispetto ai dividendi, ndr) e spesso hanno tempistiche definite». Inoltre, prosegue il money manager, «esercitano minore pressione sui team manageriali in termini di incertezza associata ad altre opzioni come l’investimento o le operazioni di fusione e acquisizione».

Il record di Wall Street

I numeri del fenomeno sono eloquenti: negli Stati Uniti, conclamata patria dei buyback, le aziende quotate hanno annunciato finora acquisti di azioni per un valore prossimo a 1.000 miliardi di dollari, secondo quanto riportato da un’analisi del Wall Street Journal che cita calcoli di Birinyi Associates. La previsione è che si possa arrivare a 1.100 miliardi entro fine anno.

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Ad acquistare azioni proprie sono colossi tecnologici come Apple e Alphabet, la casa madre di Google. Ma anche giganti bancari del calibro di Jp Morgan, BofA e Morgan Stanley. Molte quotate di Wall Street dispongono di abbondante liquidità. Secondo il quotidiano finanziario, utilizzarla per un buyback è spesso visto dal mercato come un modo intelligente per sostenere le quotazioni. Ma non mancano gli scettici: le valutazioni delle borse Usa sono elevate e quindi acquistare azioni proprie può essere un modo per sostenere il mercato ed evitarne il fisiologico declino. Inoltre alcuni analisti temono che i buyback, meno impegnativi nel lungo termine rispetto a distribuzioni periodiche di cedole o piani di investimento strutturali, siano un modo furbo per far salire i prezzi dei titoli mascherando l’impatto dei dazi di Donald Trump sulla crescita.

Piazza Affari: 10 miliardi

Diverso è il caso dell’Europa, dove, spiega van der Welle, «le più modeste valutazioni hanno sostenuto la crescita dei programmi di buyback. Se le imprese europee ritengono che le loro quotazioni azionarie siano strutturalmente scontate rispetto ad altre aree geografiche, può essere sensato dal loro punto di vista continuare a destinare la liquidità in eccesso ai riacquisti di azioni».

Per il momento, argomenta il money manager, «i riacquisti si sono concentrati nelle banche e nelle imprese energetiche, ma è possibile che queste operazioni comincino a diffondersi in altri settori, poiché notiamo un approccio più disciplinato all’allocazione del capitale» tra le quotate del continente. Banche ed energia sono i due settori più rappresentati a Piazza Affari, dove non a caso piovono buyback come raramente si era visto in passato. Ad oggi, come si evidenziato dalla tabella in basso, nel mercato principale (escluso l’Egm) sono in corso piani di acquisto di azioni proprie per oltre 10 miliardi di euro. Tutte le principali quotate del Ftse Mib, da Eni e Enel, da Intesa Sanpaolo a Unicredit passando per le Generali, hanno un buyback in corso. Così come stanno acquistando azioni proprie Lottomatica, una delle aziende più in salute quest’anno (total return da gennaio pari all’89%), che ha avviato a giugno un piano da 500 milioni, Nexi (300 milioni), Recordati (125 milioni) e società che nel 2025 stanno facendo più fatica, come Amplifon (-38% il total return), che ha avviato a maggio la prima tranche da 100 milioni di un buyback da 150.

Agosto effervescente

Solo nelle ultime due settimane sono partiti i buyback di due pesi massimi di Piazza Affari. Il primo nome è quello di Generali, che alla data di avvio del programma possedeva 31 milioni di azioni proprie (2,03%): per il Leone l’obiettivo dichiarato è «fornire agli azionisti una remunerazione aggiuntiva rispetto alla distribuzione di dividendi, impiegando parte delle risorse liquide disponibili della società». Motivazione analoga a quella di Enel, che a inizio mese ha avviato un maxi-buyback da un miliardo, che non andrà oltre il 31 dicembre.

Pochi giorni prima, a fine luglio, era stata la volta di Unicredit: prima tranche del buyback residuo del 2024 da 1,8 miliardi, parte di un piano complessivo da 3,57 miliardi. Mentre Intesa Sanpaolo ha iniziato a ricomprare azioni a giugno: il piano ammonta a 2 miliardi e all’ultima comunicazione obbligatoria Ca’ De Sass aveva già acquistato l’1,26%.

Più riacquisti, meno cedole

Perché le società quotate stanno optando sempre più per l’opzione dei buyback? Van der Welle indica due fattori. Primo, «evitare la necessità di distribuire regolarmente liquidità attraverso i dividendi», che, sebbene siano spesso «considerati un simbolo dello stato di salute di un’azienda», hanno un rovescio della medaglia: «I tagli delle distribuzioni segnalano che un’impresa stenta a generare profitti e sono ritenuti inflessibili», prosegue lo strategist. Che aggiunge: «In genere le quotazioni azionarie scendono bruscamente in seguito a una riduzione dei dividendi, quindi le aziende sono meno disposte a incrementarli dopo periodi di utili sostanziosi».

Secondo punto: i buyback consentono di «aumentare in via artificiale gli utili per azione e il prezzo delle azioni stesse», osserva ancora il money manager. Il meccanismo è semplice: una volta terminato il programma di riacquisto, l’azienda può decidere – e spesso lo fa, anche se non è obbligatorio – di cancellare le azioni proprie acquistate. Così il capitale della società quotata risulta suddiviso in un numero inferiore di azioni. A parità di utili complessivi (numeratore), l’utile per azione cresce perché il numero di azioni in circolazione (denominatore) è più basso. In teoria, questo aumento dell’utile per azione dovrebbe spingere verso l’alto anche la valutazione di mercato del titolo, dal momento che gli investitori di solito tendono a pagare di più per ogni unità di utile generata.

Attenzione alla trappola

Il nesso tra crescita degli utili per azione e aumento dei corsi azionari dei titoli – va specificato – non è un passaggio automatico. Chi sceglie di investire nei titoli in virtù dei loro piani di buyback deve quindi porsi sempre una domanda: l’acquisto di azioni proprie è supportato da fondamentali e prospettive di crescita reali o è un intervento di cosmesi finanziaria per provare a sostenere in modo artificiale il prezzo delle azioni?

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La domanda è d’obbligo, soprattutto per quanto riguarda le quotate d’Oltreoceano, tanto più in una fase storica come quella attuale in cui le valutazioni dei titoli sono elevate e la crescita degli utili rischia di essere seriamente compromessa dai dazi di Trump. Inoltre in passato non pochi analisti hanno storto il naso di fronte a un uso un po’ allegro dello strumento: negli Stati Uniti spesso i compensi dei top manager vengono pagati con pacchetti azionari e quindi un intervento per far salire il prezzo delle azioni può creare di fatto un bonus per dirigenti e azionisti rilevanti.

Come orientarsi

In Europa (e più nello specifico in Italia) vale un discorso differente: le valutazioni dei titoli sono ancora contenute, i fondamentali (dei gruppi bancari in primis) appaiono ancora solidi, la liquidità in pancia alle società è elevata e gli analisti vedono ancora per molte aziende margini di crescita importanti. Un titolo come Lottomatica, ad esempio, dopo l’uscita del fondo Apollo e la trasformazione in public company ha sperimentato un importante rally di borsa che secondo gli analisti è destinato a proseguire nei prossimi mesi. La società tratta inoltre a un multiplo di 16,8 volte gli utili attesi tra 12 mesi, sensibilmente più basso della media (46) degli ultimi cinque anni.

Insomma, quando si parla di buyback è più che mai opportuno fare i compiti a casa e capire perché la società sta utilizzando questo strumento proprio ora. Se in borsa l’azienda mostra incertezze, tratta a multipli troppo alti o non riesce a fornire guidance sui fondamentali chiare per i mesi successivi, è possibile che sia in atto un tentativo di fare cosmesi sul titolo e che l’effetto sperato nel momento in cui le azioni vengono cancellate non si verifichi.

La carta a oriente

C’è infine un altro mercato, oltre a Usa ed Europa, dove la strada dei buyback è sempre più esplorata e apprezzata dagli esperti di mercato: il Giappone. In questo caso a favorirne l’utilizzo è stato un intervento normativo delle autorità finalizzato proprio a migliorare le remunerazioni per i soci. Conclude van der Welle: «In Giappone i buyback hanno vissuto un’accelerazione dopo che la borsa di Tokyo ha annunciato, nel marzo 2023, che le società avrebbero dovuto adoperarsi per migliorare il ritorno di capitale agli azionisti, con un conseguente aumento del payout medio dal 57,1% del 2023 al 67,4% del 2024». 

Dividendo o buyback? Guida alla scelta

Dividendo o buyback? Questo è il dilemma di tanti piccoli investitori individuali che vogliono scegliere come investire anche sulla base di quanto (e in che modo) potrebbero prendere parte agli utili aziendali.

Il dividendo è sicuramente la strada maestra per chi vuole ricevere un reddito costante e più o meno prevedibile: alla data dello stacco della cedola si riceve subito il denaro nel proprio conto corrente. Di solito, subito dopo l’operazione il prezzo dell’azione scende in misura pari al dividendo staccato. Tuttavia, se l’azienda è solida e ha buoni fondamentali, tende a recuperare rapidamente. Il vero svantaggio dei dividendi però è quello fiscale: il valore lordo della cedola viene decurtato immediatamente del 26%, l’aliquota che in Italia si applica alle rendite finanziarie diverse dai titoli di Stato.

La filosofia del buyback è differente. L’investitore non gode infatti di un beneficio immediato nel suo conto corrente, ma di un valore che si riflette (o meglio, dovrebbe riflettersi) sul prezzo di mercato dell’azione. Un valore teorico, ovviamente, che diventa effettivo solo quando si sceglie di vendere l’azione: non c’è quindi nessuna tassazione diretta. Si paga il 26% solo su un’eventuale plusvalenza quando si vende il titolo: ma questo principio è identico anche per le azioni che staccano un dividendo.

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In seguito al buyback e alla cancellazione delle azioni da parte della società (non obbligatoria) il prezzo del titolo dovrebbe salire per riflettere il maggior utile per azione della società (eps): ci sono meno azioni in circolazione e quindi a parità di utile netto l’eps dovrebbe salire.

Come regola di base, chi cerca una distribuzione periodica (magari nell’ambito di una strategia di income investing) può trovare nel dividendo il metodo di distribuzione degli utili ottimale per le sue esigenze. Tanto più se vanno a scegliere società – o Etf specializzati – che distribuiscono da anni cedole regolari o crescenti: quelli che vengono definiti anche aristocratici del dividendo. Chi invece punta su una crescita a lungo termine del capitale e sull’ottimizzazione fiscale può apprezzare di più un’azienda che fa buyback, purché l’operazione di acquisto delle azioni proprie non venga fatta solo per far alzare artificiosamente il prezzo dei titoli.

Questo è proprio il limite principale dei buyback: affinché l’effetto atteso si realizzi devono esserci valutazioni dei titoli ragionevoli e un management di qualità, che non utilizzi questo strumento per fare cosmesi finanziaria o per (provare a) nascondere al mercato dei deficit strutturali nella crescita attesa.

Oltre a dividendi e buyback, non vanno ovviamente dimenticate le altre strade con cui le aziende possono utilizzare i loro utili, e che possono fare nel lungo periodo la fortuna degli azionisti. E cioè: reinvestirli in ricerca e sviluppo, oppure utilizzarli per operazioni straordinarie, come fusioni e acquisizioni. In entrambi i casi non c’è un beneficio diretto per l’investitore, che sta scommettendo di fatto sull’apprezzamento del capitale che questi investimenti possono portare nel tempo. Questo è il caso degli investimenti cosiddetti growth (come quelli in società tecnologica ad alta crescita): Meta, per fare un esempio, ha distribuito il suo primo dividendo solo nel 2024, a valere sugli utili dell’anno precedente. Ma è difficile sostenere che l’investimento nella ex Facebook non sia stato vincente, visto che dalla quotazione a oggi ha registrato un tasso di crescita annuo superiore al 25%. (riproduzione riservata)



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