TORINO. Dopo anni di delocalizzazione produttiva, trasferimento di know-how all’estero e accettazione passiva di prodotti tecnologici a basso costo provenienti da mercati extraeuropei, l’Europa inizia a interrogarsi sulle conseguenze economiche, tecnologiche e strategiche di queste scelte. A farne esperienza diretta è un’azienda torinese, la Mavtech, nata come spin-off del Politecnico di Torino, che progetta, sviluppa e realizza droni avanzati per uso professionale, destinati a numerosi settori industriali, all’agricoltura, ai servizi pubblici e alla protezione civile.
«L’Italia vanta da sempre una solida tradizione nel campo aerospaziale, e negli ultimi anni ha visto nascere numerose imprese innovative impegnate nello sviluppo di droni per applicazioni professionali», spiega Roberto Bellora, amministratore delegato di Mavtech. Tuttavia, aggiunge l’ad, «la cronica mancanza di finanziamenti alla ricerca e la difficoltà di accesso al capitale hanno ostacolato lo sviluppo e l’introduzione sul mercato di molte di queste soluzioni». Lasciando spazio a un’unica, ingombrante presenza: il colosso cinese Dji.
L’azienda di Pechino, supportata da generosi investimenti statali e favorita da normative interne molto meno stringenti di quelle europee, negli anni ha conquistato una posizione dominante anche in Occidente. «Oggi i suoi droni non sono impiegati soltanto da privati e aziende, ma sono largamente utilizzati da pubbliche amministrazioni, forze dell’ordine e servizi di emergenza in Europa e negli Stati Uniti», ricorda l’ad.
«Solo recentemente si è iniziato a porre un freno all’acquisto di droni cinesi da parte di enti pubblici, anche in considerazione dei rischi legati alla gestione e alla sicurezza dei dati. Ma il danno è già stato fatto». E così le aziende europee, spesso con tecnologie valide e progetti promettenti, si trovano oggi a competere in un contesto fortemente squilibrato: «Da un lato, un gigante industriale sostenuto dallo Stato e con una forza commerciale globale; dall’altro, start-up e Pmi che faticano a sostenere i costi di certificazione, a entrare nei bandi pubblici, e persino a rendersi visibili».
In Italia, aggiunge Bellora, «la situazione è ancora più paradossale: molti enti pubblici continuano a indirizzare i propri acquisti verso Dji attraverso bandi che, esplicitando modelli e specifiche esclusive, di fatto impediscono qualsiasi reale concorrenza. Basta consultare i portali di Anac, Consip o le piattaforme di approvvigionamento certificate per rendersi conto della sistematicità con cui si tagliano fuori le imprese nazionali».
Per questo, conclude il manager dell’azienda torinese, «serve una riflessione seria per ristabilire un minimo di equilibrio competitivo. Senza un cambio di rotta, non solo si mette a rischio l’autonomia tecnologica dell’Europa, ma si condanna un intero ecosistema industriale alla marginalità».
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