Piccole imprese, grandi rischi: la Corte Costituzionale alza il prezzo dei licenziamenti illegittimi


Con la sentenza n. 118 del 2025, la Corte costituzionale ha pronunciato una decisione destinata a incidere profondamente sull’equilibrio dei rapporti di lavoro, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, nella parte in cui prevedeva che, nei casi di licenziamento illegittimo intimato da datori di lavoro con meno di sedici dipendenti per unità produttiva o sessanta complessivi a livello nazionale, l’indennità risarcitoria non potesse in alcun caso superare il limite di sei mensilità per anno di servizio. La norma censurata stabiliva, infatti, una tutela indennitaria fortemente ridotta per i lavoratori impiegati in micro e piccole imprese, rispetto a quanto previsto per i dipendenti delle aziende sopra soglia. La Corte è intervenuta in un contesto già segnato da un precedente monito al legislatore, contenuto nella sentenza n. 183 del 2022, che aveva ravvisato l’esistenza di un vulnus costituzionale nella previsione di un indennizzo così esiguo e standardizzato, ma aveva rinviato ogni intervento correttivo in attesa di una riforma organica da parte del Parlamento. Riforma che, a distanza di oltre due anni, non è mai arrivata.

La pronuncia odierna non solo conferma quel giudizio di incostituzionalità, ma lo rende operativo, eliminando il tetto invalicabile delle sei mensilità e affermando che una tutela monetaria così compressa è inadeguata a risarcire il pregiudizio subito dal lavoratore, a garantirne la dignità, a svolgere una funzione dissuasiva efficace nei confronti del datore di lavoro autore del recesso illegittimo. Secondo la Corte, il criterio esclusivo del numero dei dipendenti non è più sufficiente, da solo, a giustificare una disciplina differenziata così penalizzante per il lavoratore: la forza economica di un’impresa non può più essere misurata solo sulla base dell’organico, ma richiede di essere valutata alla luce di parametri integrativi come il fatturato, il bilancio, la struttura organizzativa, la natura giuridica del datore di lavoro. Non è infatti più accettabile, in un sistema costituzionale fondato sul valore del lavoro, che licenziamenti viziati da gravi irregolarità, come l’assenza di contestazione disciplinare o l’infondatezza del fatto addebitato, possano essere sanzionati con un’indennità risarcitoria minima e bloccata, tale da impedire ogni adeguamento al caso concreto e da neutralizzare l’effettività della tutela.

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Il superamento del tetto massimo comporta conseguenze rilevanti sul piano pratico e processuale. Da un lato, i datori di lavoro che rientrano nella soglia dimensionale inferiore non potranno più fare affidamento su un limite certo e contenuto dell’esborso economico in caso di licenziamento illegittimo. Il rischio indennitario diventa più ampio e incerto, e impone pertanto una maggiore attenzione nella gestione del potere disciplinare e nella redazione delle lettere di recesso, sia per quanto attiene alla forma che per quanto riguarda la motivazione. Ogni superficialità nell’istruttoria interna, ogni violazione del giusto procedimento o mancato rispetto delle garanzie previste dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori potrà esporre l’impresa a un giudizio in cui il giudice sarà libero di determinare l’indennità dovuta anche in misura significativamente più elevata di quella sinora prevista. Ne deriva un inevitabile innalzamento del livello di rischio giuridico e finanziario associato ai licenziamenti, anche per le realtà imprenditoriali di piccole dimensioni.

Dall’altro lato, però, la sentenza non comporta automaticamente un ampliamento della tutela per i lavoratori, che non possono illudersi di ottenere risarcimenti maggiori in assenza di una prova puntuale e convincente delle irregolarità compiute dal datore di lavoro. Il meccanismo sanzionatorio, pur ampliato, resta comunque affidato alla discrezionalità del giudice, il quale dovrà valutare in concreto la gravità del vizio, la durata del rapporto, il comportamento delle parti e l’incidenza del licenziamento sulla posizione soggettiva del lavoratore. In mancanza di un impianto probatorio solido e articolato, il rischio è che l’indennizzo si mantenga comunque su soglie basse, pur non essendo più vincolato al limite formale delle sei mensilità. In altri termini, la decisione della Corte apre una possibilità, ma non attribuisce un diritto automatico a un risarcimento maggiore: spetta al lavoratore dimostrare, in giudizio, che il licenziamento ha leso in misura grave i suoi diritti e che merita un’indennità coerente con la nuova cornice costituzionale.

La sentenza, inoltre, non elimina la previsione del dimezzamento delle indennità rispetto a quelle spettanti ai lavoratori impiegati presso datori di lavoro sopra soglia, né modifica i limiti minimi e massimi previsti dalle singole disposizioni del d.lgs. 23/2015. Resta dunque in vigore, per esempio, la possibilità di liquidare da tre a sei mensilità per i licenziamenti privi di giustificato motivo, da uno a sei per quelli viziati da errori procedurali, da 1,5 a 13,5 in sede conciliativa, con il solo vincolo che il limite massimo non è più cristallizzato a sei mensilità. La Corte afferma che, in questa nuova cornice, il giudice potrà valutare l’entità del pregiudizio e modulare la misura dell’indennizzo all’interno di una forbice più ampia e flessibile, in grado di recepire le peculiarità del singolo caso. Viene dunque confermato un modello di tutela monetaria differenziata, ma viene restituito al giudice il potere di adattarla alla gravità della condotta datoriale.

L’intervento della Corte, se da un lato ristabilisce una maggiore coerenza con i principi costituzionali di uguaglianza, tutela del lavoro e dignità della persona, dall’altro conferma la necessità di un intervento legislativo organico. Il giudice costituzionale lo dichiara apertamente, ribadendo che non è compito della Corte riscrivere l’intera disciplina, né ridefinire i criteri identificativi del datore di lavoro “sottosoglia”. Tocca al legislatore superare l’assetto normativo attuale, che si fonda ancora su parametri rigidi e ormai inadeguati a descrivere le reali dimensioni economiche delle imprese, e sostituirlo con un sistema più articolato, capace di distinguere tra le diverse realtà produttive non solo in base al numero di dipendenti, ma anche in funzione di altri indicatori significativi come il volume d’affari, la struttura patrimoniale e l’effettiva capacità di sostenere i costi del contenzioso.

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Nel frattempo, questa decisione apre una fase nuova, nella quale le imprese, soprattutto le più piccole, dovranno valutare con maggiore cautela l’opportunità e le modalità dei licenziamenti, consapevoli che un errore nella forma o una motivazione generica potranno tradursi in esborsi economici più pesanti e meno prevedibili. Allo stesso tempo, i lavoratori e i loro difensori dovranno saper costruire processi solidi, fondati su prove concrete e coerenti, per poter trarre reale beneficio da una giurisprudenza che restituisce al giudice una funzione attiva di valutazione e ponderazione, ma che non deresponsabilizza le parti. È finita l’epoca dei parametri fissi e delle tutele bloccate: la giustizia del lavoro torna a essere una questione di merito, di prova e di proporzione.

Biagio Cartillone



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