Negli ultimi anni, la politica industriale è tornata al centro dell’agenda pubblica. Dopo un lungo periodo di disinteresse, lo Stato ha ripreso a intervenire con forza: incentivi, transizione digitale, misure per l’automazione e la sostenibilità. Strumenti come i Contratti di Sviluppo, Industria 4.0 e Transizione 5.0 hanno mosso miliardi e rimesso in moto investimenti in molti settori.
Lavoro in questo ambito da tempo, fianco a fianco con imprese, tecnici, amministrazioni. Ho visto con i miei occhi gli effetti concreti di queste politiche: modernizzazione degli impianti, digitalizzazione, nuovi posti di lavoro. Ma proprio per questo – da dentro – sento il bisogno di sollevare una domanda scomoda: stiamo costruendo un sistema industriale solido e sostenibile, o stiamo solo cercando di compensare problemi più profondi con sussidi a pioggia?
Il rischio è che l’incentivo diventi un fine, non un mezzo. Che si sostenga ciò che non regge da solo, o si premi chi avrebbe investito comunque. E in questo, lo Stato si muove su un crinale pericoloso: finanziare l’inefficienza o disperdere risorse senza cambiare davvero le cose.
Il caso dei Contratti di Sviluppo è emblematico. Dal 2011 a oggi, Invitalia ha finanziato oltre 430 progetti per un valore complessivo di quasi 18 miliardi di euro di investimenti attivati, con 6 miliardi di euro in agevolazioni concesse e oltre 260.000 posti di lavoro creati o tutelati1. Numeri importanti. Ma la domanda rimane: se un investimento fosse redditizio, dovrebbe farcela da solo; se non lo fosse, ha senso sostenerlo con denaro pubblico? Lo Stato si trova così in un equilibrio precario tra due rischi: finanziare progetti non sostenibili oppure premiare chi avrebbe potuto investire comunque.
Questo paradosso non è solo economico, ma anche culturale. La politica industriale italiana, per decenni, è stata prevalentemente reattiva: ha cercato di correggere, più che indirizzare. Diversamente da quanto accade in paesi come la Germania o la Francia, dove esiste una regia forte che integra scuola, ricerca, impresa e territori2, in Italia le misure spesso si accumulano senza un orizzonte chiaro. La Germania, ad esempio, punta da anni sulla formazione duale, sulla ricerca applicata, sulle Mittelstand3. La Francia ha lanciato “France 2030”, con investimenti mirati su sovranità industriale, energia e biotecnologie4. L’Unione Europea stessa, con il Green Deal Industrial Plan, guarderebbe a un modello fondato su “missioni” strategiche, più che su incentivi sparsi5, salvo poi perdersi in una giungla di lacci e lacciuoli.
L’Italia continua a finanziare l’offerta – più produzione, più automazione, più tecnologia – ma senza rafforzare in modo sistemico la domanda interna. I salari stagnano, la precarietà si amplia, i consumi non decollano. Il rischio è noto: si produce di più, ma non si vende di più. Le imprese si trovano con capacità produttiva aumentata, ma senza un mercato
interno in grado di assorbirla. Il surplus si trasforma in fragilità, e l’innovazione tecnica non genera automaticamente crescita sostenibile.
E qui emerge un nodo che tocca la dignità stessa del sistema economico: se tutto – innovazione, investimenti, formazione – è orientato ad accrescere il valore della produzione, perché il valore del lavoro continua a restare indietro? Se il lavoro è il vero motore della produttività, perché il salario reale non segue la stessa traiettoria delle tecnologie che quel lavoro dovrebbe far funzionare?
Questa riflessione non è un attacco ideologico, né una critica preconcetta agli strumenti in uso. È una domanda pragmatica, che attraversa le categorie politiche. Il tema del valore del lavoro non appartiene soltanto alla sinistra: è parte integrante anche della cultura della destra sociale, che ha storicamente riconosciuto nel lavoro non solo una fonte di reddito, ma un fondamento di dignità e coesione.
Una destra consapevole e radicata nei territori ha sempre ritenuto che impresa e lavoro vadano sostenuti insieme, che la produttività non sia disgiunta dalla giustizia sociale, e che lo Stato debba garantire un equilibrio tra iniziativa privata e responsabilità pubblica.
Già Giuseppe Tatarella, teorico del centrodestra moderato, sosteneva la necessità di una politica sociale attenta al lavoro, capace di coniugare sviluppo economico e solidarietà8. Più in generale, l’idea che l’impresa non sia solo profitto ma responsabilità verso la comunità si ritrova anche nella visione di Adriano Olivetti, che pur non appartenendo a una destra partitica, ha incarnato una cultura dello sviluppo armonico tra capitale, lavoro e territorio.
In fondo, se accettiamo – anche solo come semplificazione utile – la dicotomia tra destra e sinistra, potremmo dire che il valore del lavoro rappresenta un tema trasversale, quasi universale nel pensiero politico-economico moderno. Un punto d’incontro raro, che meriterebbe una riflessione condivisa e non ideologica
Un’imprenditorialità sana e prospera, che sappia innovare e crescere, non può esistere senza una componente sociale forte che garantisca ai lavoratori condizioni dignitose e salari adeguati. In altre parole, un’economia che cresce senza una giusta distribuzione del valore prodotto è destinata a sfaldarsi.
Per affrontare questo squilibrio, non servono ricette ideologiche, ma una presa d’atto concreta: valorizzare il lavoro significa creare condizioni che ne riconoscano il contributo essenziale allo sviluppo. Significa favorire una crescita più bilanciata, in cui le politiche industriali tengano conto anche della qualità dell’occupazione, della stabilità dei percorsi professionali, della possibilità per le persone di costruire futuro attraverso il lavoro.
Serve allora una riflessione più profonda: una politica industriale non può essere solo un elenco di incentivi. Deve essere visione, coerenza, integrazione. Deve rispondere a domande essenziali: che tipo di industria vogliamo nel 2040? In quali settori possiamo (e vogliamo) essere leader? Come mettiamo in relazione tecnologia e capitale umano?
Il nodo del capitale umano è forse il più trascurato. Le imprese italiane faticano a trovare tecnici specializzati, ingegneri, manutentori, progettisti. Il problema non è solo quantitativo, ma qualitativo: manca un disegno che colleghi formazione e produzione, scuola e impresa, in modo strutturale7. Incentivare un investimento senza formare le competenze per gestirlo equivale a costruire impianti che nessuno saprà far funzionare.
In questo scenario, emerge un’altra dimensione spesso trascurata, ma rilevante per chi, come me, si confronta quotidianamente con la realtà dei territori: ogni politica industriale, per essere davvero efficace, dovrebbe interrogarsi anche sulla capacità del sistema di assorbire e sostenere la crescita attivata. In ambito demografico si parla di capacità portante per descrivere quel limite oltre il quale un sistema – una città, un’infrastruttura, un territorio – non riesce più a garantire equilibrio tra sviluppo e sostenibilità. Tradotto nel nostro contesto, significa chiedersi se le reti logistiche, i servizi pubblici, le competenze locali e le risorse ambientali siano effettivamente in grado di accompagnare l’espansione industriale senza generare squilibri.
Non si tratta di frenare gli investimenti, né di porre limiti astratti alla crescita. Piuttosto, si tratta di riconoscere che ogni politica industriale ha bisogno di un contesto pronto ad accoglierla: altrimenti si rischia di spingere l’acceleratore di un’auto che ha bisogno prima di essere messa a punto. Ed è proprio qui che la politica può fare la differenza, integrando le misure di incentivo con interventi di sistema – scuola, sanità, infrastrutture, mobilità – che rendano quella crescita non solo possibile, ma anche duratura.
Forse serve meno incentivo e più strategia. Meno sostegno diffuso e più investimenti selettivi, misurabili nei risultati economici, sociali e ambientali. Politiche che integrino l’offerta con la domanda: incentivare sì l’industria, ma anche i consumi responsabili, i salari stabili, i servizi pubblici che liberano reddito per le famiglie. Il consumo è il motore invisibile di qualsiasi industria. Se resta debole, l’industria lo sarà altrettanto.
Non voglio screditare strumenti che, ripeto, funzionano e rappresentano per molte imprese l’unica strada per restare competitive. Ma credo che sia giunto il momento di uscire dalla logica della contingenza e affrontare la questione più difficile: costruire una politica industriale che non abbia bisogno di essere rifinanziata ogni due anni perché è diventata parte strutturale di una visione Paese.
Forse il vero salto sta qui: passare da un sistema che sostiene ciò che manca, a uno che
costruisce ciò che serve davvero.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link