Luksch, Osservatorio Startup Thinking: «Ecco qual è l’identikit dei founder italiani»


In uno scenario sempre più complesso, con veloci cambiamenti tecnologici e crescenti pressioni verso la sostenibilità, cosa sta succedendo e come si evolve il panorama italiano delle Startup?

«Il 2024 si è chiuso discretamente in termini di finanziamenti delle Startup italiane. Abbiamo raggiunto la soglia di un miliardo e mezzo di euro, che è un dato interessante per le dimensioni ridotte del nostro ecosistema», dice Alessandra Luksch, Direttore dell’Osservatorio Startup Thinking del Politecnico di Milano. Con i colleghi dell’Osservatorio Startup & Scaleup Hi-Tech ha messo a punto un report intitolato Le caratteristiche dell’ecosistema Startup e Scaleup italiano.

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«Nel corso soprattutto degli ultimi tre anni il ruolo degli investitori istituzionali è stato fondamentale e si è mantenuto stabile e costante anche in valori numerici. Questo porta a dire che anche nel nostro Paese questi attori stanno assumendo il ruolo che devono avere, ossia di accompagnamento al sistema per iniettare sia la fiducia sia i capitali. Rimane interessante anche la componente degli investitori informali, quindi Business Angels, Family and Friends e così via, spesso gli unici che accompagnano la prima fase di sviluppo delle Startup».

Cosa ci può dire sui capitali stranieri?

«Anche in questo caso, una buona componente estera ha scelto di investire in Startup italiane. Questo è un dato molto indicativo, per una serie di motivi. In primo luogo, perché parliamo di capitale straniero che entra nel nostro Paese, cioè di visibilità che le nostre Startup e le nostre iniziative imprenditoriali hanno nei confronti dell’estero. È un esempio delle modalità con cui anche il Mercato europeo sta cercando di darsi una dimensione più continentale piuttosto che nazionale. Questo approccio è incoraggiato anche dal rapporto Draghi sul futuro della competitività europea e dal documento sulla strategia per le Startup realizzato dalla Commissione Europea, in cui si insiste molto sulla necessità che l’Europa diventi il place to be per le Startup. Un obiettivo che richiede chiaramente uno sforzo di coordinamento anche a livello normativo, per facilitare sia lo scaling in altri Paesi sia il flusso di capitali».

E il mondo delle Deeptech?

«Sono Startup caratterizzate da un ciclo di vita più complicato, dal momento che si occupano di tecnologie profonde, come dice il termine stesso, e quindi non strettamente digital. C’è molta più ricerca e sviluppo. C’è la necessità di una sperimentazione che richiede quasi sempre il coinvolgimento o di università o di aziende che hanno la cosiddetta valle della morte un po’ più lunga, ossia quel periodo iniziale in cui la Startup rischia di fallire. Per queste Startup è richiesta una capacità di investimento superiore, proprio perché può essere necessario produrre dei prototipi fisici con materiali e caratteristiche particolari. Tuttavia, l’Italia in questo settore vanta esempi interessanti e significativi. Ad esempio, Newcleo nel mondo dell’energia nucleare, D-Orbit che si occupa di logistica spaziale e MMI – Medical Micro Instruments. Sul Deeptech il nostro Paese ha qualche carta da giocarsi, in virtù del fatto che abbiamo tanti importanti atenei qualificati, da cui possono nascere soluzioni di questo tipo».

Le Startup e la sostenibilità: come dialogano tra loro?

«Quello che emerge dai nostri dati è che il 70% delle Startup ha un legame diretto con le tematiche della sostenibilità sin dalla propria nascita. O perché propongono prodotti e servizi legati al tema della sostenibilità, o perché in forma indotta cercano di proporre un prodotto o servizio che riduca i consumi o l’impatto sulla sostenibilità rispetto a ciò che offre il Mercato. In questo caso, la maggior parte delle Startup è rivolta alla sostenibilità ambientale, metà alla sostenibilità sociale e in minima parte alla governance. L’impegno è quasi nativo: risale spesso alla fonte dell’idea di business e fa parte del DNA dello stesso startupper. Le difficoltà principali nel lavorare su questi temi sono legate alla necessità di seguire l’operatività corrente e cercare di non perdere tempo a sviluppare l’impresa in ambiti particolari. Un elemento distintivo, poi, è quello di cercare di migliorare l’etica delle decisioni».

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Quali sono le potenzialità dell’Open Innovation per le Startup e come sfruttarle?

«Anche nel 2024 l’Open Innovation ha registrato una crescita nell’adozione da parte delle grandi imprese, quelle con più di 250 dipendenti, pari all’88%. Questo dato sale al 98% se guardiamo alle grandissime imprese con più di mille dipendenti. Ma ci sono luci e ombre. Da un lato, vediamo crescere l’interesse e la curiosità delle aziende, che cominciano ad aumentare anche la parte di outbound. L’elemento che invece può lasciare perplessi è che la tendenza da parte del top management a puntare verso questo approccio di innovazione è ancora limitata. Solo il 30% dei vertici aziendali ritiene strategica l’adozione di Open Innovation e anche i budget dedicati sono ancora, a nostro avviso, marginali».

Quali sono i motivi?

«L’Open Innovation è perlopiù già stata riconosciuta come un approccio utile, soprattutto negli anni di emergenza causati da pandemia, guerre e crisi energetica. Questo perché è più facile innovare quando non si è da soli. Ma è un processo che deve ancora affrancarsi da un ruolo in un certo senso ancillare rispetto ai modelli tradizionali. Ci auguriamo che nei prossimi anni cresca la consapevolezza, anche da parte di chi si occupa di Open Innovation, con la capacità di convertire gli sforzi in risultati concreti e misurati che facciano capire in maniera tangibile la sua importanza. Questo oggi è ancora un traguardo lontano, anche perché spesso i progetti non riescono a dare risultati immediati. Richiedono una prospettiva di più ampio respiro, mentre il business  vorrebbe invece avere delle evidenze nell’immediato».

Qual è l’identikit dei founder italiani?

«Sono per lo più maschi, con un’età media intorno ai quarant’anni. Più precisamente, l’età media per gli uomini è 39,6 anni, mentre per le donne 40,3 anni. Una differenza di esattamente 9 mesi. Sarà un caso, ma forse non troppo: le donne scontano sicuramente un ritardo legato alla maternità nel diventare founder. Tuttavia, nel nostro Paese dobbiamo abbattere il mito del giovane col cappuccio in testa che si chiude a lavorare in garage, perché in realtà i nostri founder sono persone senior, con una certa esperienza di business. A volte sono perfino fondatori seriali. Il dato europeo non è così distante dal nostro, dato che si è abbassato rispetto a quello rilevato nel 2021, dove chi fondava Startup era più vecchio, oltre i 41 anni. Le imprese innovative sono quasi sempre fondate da più persone. Perché? Da un lato, nel DNA del founder esiste il senso della collaborazione e il desiderio di non innovare da solo, dall’altro lato perché per fondare una Startup è necessario mettere insieme competenze. A livello di genere, solo il 10% delle Startup ha una guida totalmente femminile, mentre il 41% è a guida mista, uomini e donne. Infine, il 49% è totalmente maschile».

C’è attenzione anche al benessere e all’aspetto psicologico…

«All’interno della nostra survey abbiamo chiesto quali fossero le ripercussioni sia positive sia negative sul benessere mentale. Per quanto riguarda le prime, sicuramente la maggior parte dei founder, il 77% del totale, ha provato stress e ansia. Altri effetti sono l’insonnia, il burnout, la depressione e addirittura gli attacchi di panico, anche se in forma minore. La motivazione deriva principalmente dall’instabilità economica della società, nel 67% dei casi, insieme alla raccolta fondi, per il 56%. Questo è un tema non solo legato alla propria posizione economica, ma probabilmente anche al fatto che ci si imbarca nell’avventura imprenditoriale anche con altre persone e si sente la responsabilità di questi altri nuclei familiari. Le ripercussioni positive invece sono molto legate alla realizzazione personale, nel 58% dei casi, e all’aumento dell’autostima e della fiducia in se stessi, per il 45%. Ciò porta gli imprenditori a ripetere questa storia di imprenditorialità e a diventare fondatori seriali. Più del 60% degli intervistati aprirebbe un’altra Startup in caso di fallimento, nonostante i rischi».

Cosa possiamo aspettarci per il futuro?

«Il tema dei capitali di rischio nel nostro Paese deve essere ancora sviluppato appieno e dovrebbe essere messo a punto anche con formule di incentivazione agli investimenti. Ciò è legato anche a un fattore culturale: siamo una nazione con una grande avversione al rischio. È per questo che si perde parte della cultura dell’imprenditorialità che nelle scuole non viene insegnata e che dovrebbe invece essere maggiormente sostenuta. Per affrontare questo problema, bisognerà lavorare sulle normative e sulla burocrazia a livello europeo e non solo nazionale. Lato imprese, è necessario spingere la convinzione dell’importanza dell’Open Innovation e del ruolo delle nuove realtà».

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📸 Credits: Canva.com

Articolo tratto dal numero del 15 luglio 2025 de il Bollettino. Abbonati!

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