Occasioni perse: un nuovo modello di governance per le società di capitali


La limitazione della responsabilità dei sindaci rischia di rimanere un palliativo. Il collegio sindacale andrebbe eliminato, integrando i controlli all’interno del board. Ma ciò richiede un disegno di riforma organico e una cornice di lobbying trasparente.

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La riforma del 2025

In un recente articolo su lavoce.info, Pier Luigi Morara e Francesco Vella hanno commentato la modifica legislativa all’art. 2407 cc, che introduce un limite alla responsabilità dei componenti del collegio sindacale, commisurandolo al loro compenso (fino a quindici volte per onorari inferiori a 10mila euro, dodici volte fra 10 e 50mila, dieci volte oltre tale soglia) e riducendo a cinque anni il termine di prescrizione delle azioni di responsabilità. Si tratta di una norma foriera di non poche incertezze interpretative, prima fra tutte quella relativa alla sua applicabilità ratione temporis, sancita da una recente ordinanza del tribunale di Bari addirittura in via retroattiva.

Più in generale, la novità si innesta in un contesto che negli ultimi anni ha visto crescere in misura significativa i poteri-doveri dei sindaci, mentre in altri ordinamenti europei, la limitazione di responsabilità è stata accompagnata da modelli di governance più snelli, come quelli dei Paesi Bassi e del Regno Unito, dove il controllo e la gestione convivono nello stesso organo, con una delimitazione precisa di ruoli e competenze.

L’Italia, invece, si è limitata a “curare il sintomo” senza toccare i limiti strutturali di un modello di governo societario ormai obsoleto e di un sistema di controllo pletorico e ridondante. Ecco la grande occasione mancata: la legge 35/25 risolve (parzialmente) uno squilibrio economico-assicurativo, ma lascia intatto un assetto di controllo che l’analisi giuridica e aziendalistica, anche comparativa, continua a considerare costoso e, per molti versi, inefficace.

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I tre modelli previsti dal nostro ordinamento

Dal 2003 le società italiane possono scegliere fra tre modelli: tradizionale, monistico e dualistico. Eppure, a distanza di vent’anni, la grandissima maggioranza delle società non quotate è rimasta ancorata al primo. Le ragioni sono note: path dependence, norme secondarie pensate per difendere lo status quo, limitata alfabetizzazione governance-oriented e, non da ultimo, la persistenza di un presidio — il collegio sindacale — che nella prassi è percepito come “il” controllo naturale e inevitabile sull’operato degli amministratori; il passaggio al comitato di controllo interno (one-tier) o al consiglio di sorveglianza (two-tier) richiederebbe un cambiamento culturale più che normativo.

Un audit committee interno al board richiederebbe meno risorse, potrebbe contare su un flusso informativo diretto (riducendo i tempi di reazione e i costi amministrativi) e sarebbe più gradito al mercato. Infatti, la platea degli investitori istituzionali – soprattutto quelli esteri – tende a preferire il modello one-tier, per esigenze di leggibilità, comparabilità e gestione del rischio: su 49 giurisdizioni (i 38 paesi Ocse più tutti i membri G20/Fsb, con l’aggiunta di Malesia e Perù) analizzate dal OECD Corporate Governance Factbook nel 2023, 23 adottano come sistema di default il monistico, 8 prevedono in via esclusiva il dualistico, 15 consentono la scelta fra i due modelli e tre sistemi ibridi – Italia, Giappone e Portogallo – che offrono appunto tre varianti (tradizionale, monistico, dualistico). Del resto, sono noti gli esempi di grandi public companies italiane che hanno esplicitamente motivato il passaggio al monistico con l’esigenza di attrarre capitali esteri: su tutte, UniCredit, che segnala nella propria relazione sul governo societario che quel modello «assicura scambio diretto con gli azionisti su elementi fondamentali di governance» e che gli investitori esteri rappresentano circa il 70 per cento del capitale flottante.

La grande occasione persa

Le associazioni dei dottori commercialisti (Cndcec, Ungdcec, Adc) hanno sostenuto con forza la richiesta di un tetto risarcitorio — e l’hanno ottenuta. Il governo avrebbe potuto trasformare quella richiesta in “moneta di scambio”, aprendo un “tavolo” per ridisegnare l’intero sistema di controlli: limitazione della responsabilità in cambio dell’adesione a un percorso che portasse alla progressiva sostituzione dei collegi sindacali con comitati interni. Invece, la trattativa si è giocata tutta su un tema settoriale, senza collegare la misura “difensiva” a un obiettivo strategico (similmente a quanto accaduto in passato con l’introduzione del sindaco unico e l’innalzamento delle soglie di obbligatorietà).

Il nodo dell’attività di lobbying e della trasparenza

All’indomani dell’approvazione del “nuovo” 2407, è risuonata la grande eco del ruolo avuto, nella promulgazione della norma, dalla categoria professionale dei commercialisti.

Qui entra in gioco un tema di metodo: nei sistemi anglosassoni la rappresentanza di interessi è regolata da registri pubblici e da obblighi di disclosure, per cui sapere “chi incontra chi” è il prerequisito perché l’attività di lobbying sia percepita come legittima e funzionale alla qualità delle decisioni politiche. In Italia la regolamentazione tarda ad arrivare: gli indicatori Ocse collocano il nostro paese fra quelli con minore trasparenza sui contatti fra portatori di interessi e decisori pubblici. Dopo oltre 108 proposte di legge in cinquant’anni, l’istituzione di un registro unico è ancora ferma in Parlamento, nonostante l’ultima bozza — gestita dal Cnel — sia stata presentata nell’aprile 2025. L’episodio dell’art. 2407 mostra quanto sia penalizzante questa carenza: il confronto fra governo e professionisti si è svolto dietro le quinte, senza vere call for comments, pubblici position papers o audizioni trasmesse integralmente. Il risultato è un provvedimento puntuale, ma privo della visione sistemica che una consultazione aperta avrebbe potuto generare.

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Una proposta in quattro mosse

Anche alla luce delle scelte normative adottate in altri ordinamenti, delle best practice che sono andate affermandosi e con una particolare attenzione al mercato dei capitali, si potrebbe provare a riflettere su quattro punti, di semplice applicazione pratica.

Il primo punto è introdurre un periodo di opt-in obbligatorio al modello one-tier.Le società che superano determinate soglie dimensionali potrebbero essere tenute, per un triennio sperimentale, a sostituire il collegio sindacale con un audit committee interno al board, magari composto da almeno due amministratori indipendenti e un esperto contabile.

In secondo luogo, si dovrebbe potenziare il ruolo del revisore legale, che diventerebbe il principale interlocutore dell’audit committee, limando le sovrapposizioni oggi esistenti.

Il terzo punto è allineare il reporting ai migliori standard internazionali. Sul modello dell’UK Code 2024, il board dovrebbe attestare l’efficacia di tutti i controlli “materiali”, non soltanto quelli finanziari.

Quarto punto: legare la riforma a un “patto di responsabilità”. In cambio del consenso all’ipotetico intervento riformatore, la categoria dei commercialisti potrebbe ottenere: l’estensione del tetto risarcitorio anche alle funzioni di audit committee; incentivi fiscali per l’aggiornamento professionale in materia di controlli interni; l’obbligo per le compagnie assicurative di offrire polizze Rc a premi calmierati.

La limitazione della responsabilità dei sindaci è stata salutata dalla categoria come «passaggio storico», ma rischia di rimanere un palliativo. Il vero salto di qualità richiede il coraggio di archiviare il collegio sindacale — istituto nato in un contesto economico ottocentesco, con il codice di commercio — e di integrare i controlli all’interno del board.

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Per farlo servono due condizioni: una strategia di riforma che leghi le singole misure di tutela a un disegno organico e una cornice di lobbying trasparente, che trasformi la rappresentanza di interessi da negoziato opaco in momento fisiologico di co-produzione normativa.

Il caso dell’art. 2407 dimostra che le competenze tecniche della professione — oggi mobilitate per alleggerire il rischio patrimoniale — potrebbero essere il motore per imboccare la strada verso una governance più moderna e competitiva. A condizione che il decisore politico impari a negoziare alla luce del sole ed efficacemente.

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Andrea Chiloiro



Alunno del Collegio Ghislieri, ha studiato all’Università di Pavia, dove insegna diritto della regolazione dei mercati, diritto bancario bancario e dei servizi di investimento. PhD in Economia Politica e Ordine Giuridico, ricercatore di diritto commerciale e avvocato in Milano, si occupa di operazioni straordinarie e di crisi d’impresa.



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