L’indebita percezione di contributi alla luce della sentenza delle Sezioni Unite n. 11969/2025


Con la sentenza n. 11969/2025, pubblicata in data 26 marzo 2025, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affrontato un tema a lungo dibattuto in giurisprudenza. Con l’ordinanza n. 27639 del 7 maggio 2024, la VI Sezione penale ha rimesso il ricorso alle Sezioni Uniti per dirimere un contrasto giurisprudenziale relativo alla corretta qualificazione giuridica del fatto oggetto del reato ex art. 316-ter c.p. (i.e. l’indebita percezione di erogazioni pubbliche) nell’ipotesi in cui la condotta si sia concretizzata in un mero risparmio di spesa per il soggetto agente a seguito del versamento parziale dei contributi previdenziali dovuti per i lavoratori assunti dalle liste di mobilità; e all’individuazione della natura, unitaria o meno, del reato nell’ipotesi di percezioni periodiche di contributi erogati dallo Stato.

 

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Il caso di specie

La sentenza n. 11969/2025 della Corte di cassazione penale a Sezioni Unite ha tratto origine da un procedimento penale in cui si contestava la commissione del reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, previsto dall’art. 316-ter c.p. da parte di un’impresa privata.

Nel caso di specie, il fatto posto come oggetto di giudizio era l’indebito accesso, da parte della società ricorrente, a significative agevolazioni contributive previste in favore delle aziende che assumevano lavoratori provenienti da procedure di mobilità, come previsto dalla Legge n. 223/1991. Tali previsioni rivestivano la particolare finalità di politica occupazionale e di sostegno alla ricollocazione dei lavoratori disoccupati o espulsi da precedenti realtà produttive.

Nel caso concreto, la società aveva ottenuto la riduzione degli oneri contributivi dovuti all’INPS per l’assunzione di circa duecento lavoratori, formalmente presentati all’ente previdenziale come provenienti da procedura di mobilità avviate da un’altra impresa. Tuttavia, dallo svolgimento di alcune indagini era poi emerso che i lavoratori inseriti in tali liste di mobilità erano stati precedentemente impiegati presso una società strettamente collegata alla stessa impresa che li aveva assunti e beneficiato delle agevolazioni, e che la loro “uscita” e successiva “riassunzione” erano parte di un meccanismo pianificato per accedere indebitamente al beneficio.

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La condotta posta in essere dalla società in questione è stata giudicata illegittima ai sensi dell’art. 316-ter c.p.

L’assunzione da parte della società di lavoratori inseriti nelle predette liste di mobilità è stata considerata in violazione dell’art. 8, comma 4-bis, della Legge n. 223/1991, con cui si prevedeva che il diritto a benefici economici a favore delle imprese che assumevano lavoratori in mobilità fosse: «escluso con riferimento a quei lavoratori che siano stati collocati in mobilità, nei sei mesi precedenti, da parte di impresa dello stesso o di diverso settore di attività che, al momento del licenziamento, presenta assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli dell’impresa che assume ovvero risulta con quest’ultima in rapporto di collegamento o controllo. L’impresa che assume dichiara, sotto la propria responsabilità, all’atto della richiesta di avviamento, che non ricorrono le menzionate condizioni ostative».

La condotta fraudolenta prevedeva, infatti, una discontinuità solo apparente nei rapporti di lavoro, al fine di simulare il presupposto legittimante per accedere agli sgravi previsti dalla normativa. Il fine ultimo era, invece, quello di ottenere un vantaggio economico non spettante, tramite la rappresentazione distorta della situazione aziendale e occupazionale.

Le Sezioni Unite hanno infatti confermato la ricostruzione operata dai giudici dei gradi precedenti nella parte in cui illustrano il forte rapporto di collegamento tra la società che aveva dato luogo al processo di riorganizzazione aziendale attivando la procedura di mobilità, e la società che invece aveva assunto i dipendenti inseriti nelle liste di mobilità.

Sotto tale profilo, si possono ricavare gli elementi presi in considerazione dalla giurisprudenza per affermare l’evidenza di un rapporto funzionale, produttivo, commerciale e finanziario tra società, e si osserva che particolare attenzione è stata prestata all’oggetto sociale delle imprese coinvolte e alla compagine societaria delle imprese, in particolare il nucleo proprietario delle società collegate quando quest’ultimo è composto da persone aventi legami di parentela, affinità o interessi in comune.

 

L’interpretazione dell’art. 316-ter c.p. operato dalle Sezioni Unite in caso di indebito conseguimento di agevolazioni contributive

La Sesta Sezione penale della Corte di cassazione ha rimesso il ricorso, depositato dalla società ricorrente, alle Sezioni Unite, ponendo 2 differenti questioni da dirimere. In primo luogo, la Sesta Sezione penale domanda alle Sezioni Unite di risolvere il contrasto relativo alla corretta qualificazione giuridica del fatto oggetto della fattispecie di reato presupposta (i.e. art. 316-ter c.p.) nell’ipotesi in cui la condotta abbia prodotto un mero “risparmio di spesa” per effetto del versamento parziale dei contributi previdenziali dovuti per i lavoratori assunti tramite le liste di mobilità.

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In secondo luogo, qualora si ritenesse applicabile il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche di cui all’art. 316-ter c.p., la Sesta Sezione penale chiede alle Sezioni Unite di affrontare la questione relativa all’individuazione della natura, unitaria o meno, del reato nell’ipotesi di reiterate percezioni periodiche di contributi erogati dallo Stato.

Per quanto concerne il primo quesito sottoposto alle Sezioni Unite, queste ultime hanno risposto in maniera positiva enunciando il seguente principio di diritto da doversi applicare al caso concreto: «Integra il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche previsto dall’art. 316-ter cod. pen. l’indebito conseguimento del diritto alle agevolazioni previdenziali e alla riduzione dei contributi dovuti ai lavoratori collocati in mobilità per effetto della omessa comunicazione dell’esistenza della condizione ostativa prevista dall’art. 8, comma 4-bis, Legge 23 luglio 1991, n. 223 (abrogato, a decorrere dal 1° gennaio 2017, dall’art. 2, comma 71, lett. b), Legge 28 giugno 2012, n. 92), senza che assumano rilievo, a tal fine, le modalità di ottenimento del vantaggio economico derivante dall’inadempimento dell’obbligazione contributiva».

Le Sezioni Unite hanno quindi affermato che l’indebita percezione di erogazioni pubbliche prevista dalla fattispecie di reato di cui all’art. 316-ter c.p., si configura anche attraverso l’attribuzione di una forma qualsiasi di agevolazione economica che sia traducibile in un “risparmio di spesa” a beneficio dell’ente richiedente. Non assumono particolare rilievo le modalità di ottenimento del relativo vantaggio economico essendo sufficiente l’indebito conseguimento del diritto alle agevolazioni previdenziali e alla riduzione dei contributi.

Le Sezioni Unite, nel pronunciare il predetto principio di diritto, operano una ricostruzione molto dettagliata della fattispecie di reato disciplinata dall’art. 316-ter c.p., citando sentenze molto importanti in tema, come le Sezioni Unite Carchivi e Pizzuto.

A questo proposito, le Sezioni Unite richiamano alcuni principi affermati dalla sentenza Pizzuto secondo cui: «nel concetto di conseguimento indebito di una erogazione da parte di enti pubblici rientrano tutte le attività di contribuzione ascrivibili a tali enti, non soltanto attraverso l’elargizione precipua di una somma di danaro ma pure attraverso la concessione dell’esenzione dal pagamento di una somma agli stessi dovuta, perché anche in questo secondo caso il richiedente ottiene un vantaggio e beneficio economico che viene posto a carico della comunità».

Nella sentenza in commento, le Sezioni Unite individuano un’interpretazione comune nella giurisprudenza di legittimità secondo cui le erogazioni pubbliche possono consistere anche nell’esenzione dal pagamento di una somma altrimenti dovuta, non essendo necessario il materiale ottenimento di una somma di denaro per la configurabilità del reato di cui all’art. 316-ter c.p..

A tal proposito, la Corte sottolinea che il ricorso del Legislatore a un’espressione di sintesi a titolo esemplificativo (“altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”) consente di ritenere inclusa anche la percezione di benefici economici legati alla riduzione di un onere previdenziale e non necessariamente alla sola dazione materiale di somme di denaro.

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Infatti, le Sezioni Unite osservano che, dal punto di vista letterale, i benefici ottenuti indebitamente possono essere sia “concessi” che “erogati”, ritenendo che il Legislatore abbia attribuito a questi due termini un significato autonomo, che non coincide necessariamente con la semplice consegna materiale di denaro. La Corte opera un’interpretazione dell’uso comune dei verbi “concedere” ed “erogare”. Con il primo verbo si indica un’azione volta a dare formalmente il proprio assenso, ovvero permettere o autorizzare qualcosa, senza che ciò si trasformi per forza in un trasferimento materiale. “Erogare”, invece, indica l’impiego di risorse pubbliche a favore del richiedente. Questo può includere non solo l’elargizione diretta di denaro, ma anche la fornitura di servizi, beni o agevolazioni, come ad esempio l’attivazione di procedure di spesa pubblica.

Di conseguenza, la Corte afferma che anche una richiesta che porti a un’agevolazione economica — come garanzie pubbliche su finanziamenti, assunzione da parte dello Stato di costi retributivi o previdenziali, crediti agevolati all’esportazione o forniture pubbliche a prezzi maggiorati — può rientrare nel concetto di “erogazione”, anche se non prevede un’immediata dazione di denaro al privato.

Poiché la legge non restringe in modo specifico il significato dei termini “concessione” ed “erogazione”, l’espressione “altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate” di cui all’art. 316-ter c.p. deve essere intesa come una clausola generale. Essa serve a includere nel reato qualsiasi forma di attribuzione di risorse pubbliche o europee che comporti un vantaggio per il beneficiario, anche se ottenuto in modo indiretto e senza un trasferimento iniziale di fondi.

Le Sezioni Unite concludono poi che l’indebita percezione di contributi può concretizzarsi sia in una spesa pubblica effettuata a favore del soggetto agente, sia in una mancata entrata per lo Stato o l’ente pubblico. In entrambi i casi, ciò che rileva è il danno economico derivante dalla differenza tra quanto lo Stato avrebbe dovuto ricevere e quanto ha effettivamente ricevuto, in violazione delle condizioni stabilite dalla normativa che autorizza la spesa.

Ancora, secondo la Corte la corretta interpretazione della nozione di “contributo” non deve essere limitata al dato letterale in senso strettamente tecnico, bensì deve essere oggetto di un’interpretazione più ampia in conformità con la ratio della norma.

La Corte è pervenuta a questa conclusione analizzando altresì la descrizione degli elementi costitutivi delle fattispecie incriminatrice: le Sezioni Unite, infatti, hanno rilevato come la norma individui la tipicità della condotta nel conseguimento in un indebito di contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi o non veritieri, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute. L’interesse sotteso a tale fattispecie è individuato nell’esigenza di garantire sia la libera formazione della volontà della Pubblica amministrazione nella gestione delle procedure di concessione o erogazione delle risorse economiche pubbliche, sia la loro corretta allocazione, sanzionando quindi l’obbligo di rendere dichiarazioni veritiere da parte del soggetto che richiede il contributo.

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Pertanto, il Legislatore ha utilizzato, nella redazione dell’art. 316-ter, un’ampia formulazione lessicale per descrivere l’oggetto materiale della condotta ricomprendendovi altresì la percezione di ausili economici di qualsiasi tipo purché siano connotati dalla vantaggiosità e agevolazione rispetto alle condizioni ordinarie.

Per quanto riguarda invece la realizzazione materiale del reato, si deve affermare che la condotta criminosa sussiste sia nell’attuazione di una condotta attiva, sia nell’attuazione di una condotta omissiva purché si realizzi un indebito conseguimento di un beneficio economico, sia di concessione che di erogazione di fondi dello Stato. Nel caso di specie, infatti, la condotta tenuta dalla società è certamente individuabile in una condotta omissiva, attraverso cioè un’omessa informazione preventiva circa la presenza di una condizione ostativa al beneficio che, se rivelata, ne avrebbe precluso la fruizione.

Infatti, il discrimine per l’applicazione della relativa fattispecie è rinvenuto laddove alla condotta posta in essere dal soggetto sia riconducibile l’attribuzione del diritto alla fruizione del relativo beneficio. In questo caso il beneficio ottenuto sta in un’agevolazione contributiva e in una riduzione dell’onere economico del pagamento della contribuzione a carico della società, senza che possano in qualche modo venire in rilievo le modalità di conseguimento di tale vantaggio (i.e. attraverso una erogazione o una concessione).

Nell’affermare l’applicazione dell’art. 316-ter c.p. al caso concreto, la Corte affronta poi il tema evocato dalla stessa ordinanza di rimessione, riguardante il rischio che la linea interpretativa tracciata dalla stessa Corte possa risolversi in una non consentita estensione analogica del contenuto della fattispecie criminosa con la conseguente violazione del divieto di analogia in materia penale.

A questo proposito, la Corte ha sottolineato l’efficacia del testo della norma penale in questione: tale norma è stata volutamente redatta non come una elencazione sostitutiva, bensì come una esemplificazione esplicativa di un genus di ipotesi giù definito attraverso la esemplificazione casistica omogenea.

Sulla inesistenza di una possibile violazione del divieto di analogia in materia penale, le Sezioni Unite affermano inoltre che la descrizione del fatto incriminato di cui all’art. 316-ter c.p. consente al giudice di stabilire il significato dell’elemento del reato mediante un’interpretazione non esorbitante dall’ordinario compito normalmente a lui affidato.

 

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La natura del reato di cui all’art. 316-ter c.p. in caso di ripetute percezioni periodiche di contributi erogati da un ente pubblico

Per quanto concerne il secondo quesito sottoposto alle Sezioni Unite, queste ultime hanno pure risposto in maniera positiva enunciando il seguente principio di diritto: «In tema di indebita percezione di erogazioni pubbliche, nell’ipotesi in cui il diritto alla riduzione dei contributi previdenziali e alle agevolazioni previste per il collocamento dei lavorati in mobilità dall’art. 8, Legge 23 luglio 1991, n. 223 (abrogato, a decorrere dal 1° gennaio 2017, dall’art. 2, comma 71, lett. b), Legge 28 giugno 2012, n. 92) sia stato indebitamente conseguito per effetto di una originaria condotta mendace od omissiva, il reato è unitario a consumazione prolungata quando i relativi benefici economici siano concessi o erogati in ratei periodici e in tempi diversi, con la conseguenza che la sua consumazione cessa con la percezione dell’ultimo contributo».

Le Sezioni Unite affrontano, rispondendo al secondo quesito posto con l’ordinanza di rimessione del ricorso da parte della Sesta Sezione penale, il tema del contrasto interpretativo in ordine alla qualificazione della natura del reato in caso di ripetute percezioni periodiche di contributi erogati dallo Stato, dagli enti pubblici o dall’Unione Europea.

Nel caso di specie, quindi, la Corte è stata chiamata a stabilire se il reato previsto dall’art. 316-ter fosse da considerare un reato unitario, con la conseguenza che la relativa consumazione, frazionata e prolungata nel tempo, cessa con la percezione dell’ultimo contributo, oppure se la fattispecie fosse configurabile come una pluralità di reati. Tale distinzione non è di poco conto soprattutto per quanto riguarda i termini di prescrizione: infatti, nel primo caso il termine di prescrizione decorre dalla percezione dell’ultima somma di denaro, mentre nel secondo caso il termine di prescrizione decorre dalla consumazione dei singoli fatti illeciti.

A questo punto, la Corte opera un excursus degli orientamenti della giurisprudenza in tal senso. Secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, in caso di erogazioni pubbliche conferite in tempi diversi tramite rate periodiche, il momento consumativo della condotta illecita coincide con la cessazione dei pagamenti. In tale ipotesi, quindi, il reato perdura fino a quando non vengono interrotte le riscossioni. Richiamando della giurisprudenza in tema di truffa in danno degli enti previdenziali, le Sezioni Unite affermano che in caso di prestazioni di somme di denaro periodiche da parte dell’ente pubblico non si configura un reato permanente, bensì un reato a consumazione prolungata, stante il fatto che l’elemento soggettivo della volontà di realizzare un evento destinato a protrarsi nel tempo si realizza sin dall’inizio della condotta. La giurisprudenza ha inoltre esteso la configurazione del reato unico a consumazione prolungata anche a una serie di condotte illecite caratterizzate dal progressivo aggravamento della lesione recata al bene protetto a seguito di un’iniziale condotta.

Secondo le Sezioni Unite, per la configurazione del reato in oggetto, non è necessario prendere in considerazione anche la condotta dell’ente pubblico responsabile delle erogazioni o delle concessioni di somme di denaro. Pertanto, il soggetto agente, che ha perpetrato l’azione con volontà, continua a risponderne fintantoché non interrompa egli stesso l’effetto, anche laddove tale condotta avrebbe potuto essere interrotta dallo stesso ente pubblico. Nel caso di specie, infatti, l’ente pubblico attribuiva mensilmente alla società ricorrente, un codice identificativo (“5Q”), al fine di consentire le compensazioni mensili degli oneri contributivi attraverso l’utilizzo del credito virtuale riconosciutole in concomitanza dell’assunzione iniziale di ogni dipendente. È proprio questa condotta dell’ente pubblico che la parte ricorrente censura invano nel proprio ricorso, sostenendo che tale comportamento implicasse una costante attività di verifica mensile da parte dell’ente e non un controllo svolto solamente in via provvisoria.

Le Sezioni Unite sottolineano come un’analoga soluzione è stata accolta in relazione alla condotta dell’art. 316-ter c.p. da giurisprudenza precedente.

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In alcune sentenze, infatti, era stato ritenuto applicabile l’art. 316-ter, qualificandolo come reato unico a consumazione prolungata, per tutte quelle condotte che si esplicavano in plurime erogazioni pubbliche ove queste ultime fossero la conseguenza di un unico e originario comportamento mendace o di un’omissione informativa. Da tale premessa le Sezioni Unite enunciano un importante principio in tema di reato a consumazione frazionata, per il quale questo deve considerarsi integrato solo all’esito dell’ultima riscossione da parte del soggetto agente e, nel caso le erogazioni pubbliche siano suddivise in più ratei e conferite in tempi distinti, il momento consumativo del reato deve essere individuato nella cessazione dei pagamenti.

Nel caso di specie, la prima domanda di riduzione dei contributi dovuti per i duecento lavoratori assunti dalle liste di mobilità era stata inoltrata, dalla società ricorrente all’INPS, nel 2002 e reiterata mensilmente fino al 31 dicembre 2008. Ai fini della consumazione del reato, quindi, l’ultimo evento rilevante è stato identificato dalla Corte nella percezione dell’ultimo sgravio contributivo, avvenuta nel dicembre 2008.

Dall’analisi svolta dalle Sezioni Unite nella sentenza in commento, si ricava quindi che particolare attenzione è stata posta all’elemento soggettivo e alla condotta volitiva dell’agente.

La Corte ha ritenuto applicabile l’art. 316-ter c.p., e non invece il reato di truffa aggravata di cui all’art. 640-bis c.p., in quanto l’indebita percezione di contributi è stata perpetrata tramite una iniziale condotta omissiva di silenzio antidoveroso senza essere accompagnata da un ulteriore comportamento ingannatorio diretto a indurre in errore l’ente pubblico. Infatti, la società ricorrente reiterava mensilmente le domande di riduzione contributiva tramite autocertificazioni (i c.d. D.M. 10) omettendo l’indicazione della causa ostativa alla stessa agevolazione.

A questo proposito, la Corte ha sottolineato che l’indebita percezione non si era limitata al beneficio economico concretamente ottenuto, ma si era configurata già nel momento in cui la società aveva acquisito il diritto alle agevolazioni. L’omissione di informazioni iniziale ha consentito di ottenere un vantaggio economico non dovuto, anche in assenza di comportamenti fraudolenti o ingannevoli. A tal riguardo, la Corte ha affermato che le domande di accesso alle agevolazioni contributive presentate dalla società ricorrente non dichiaravano falsamente l’insussistenza delle condizioni ostative di cui alla Legge n. 223/1991, bensì si limitavano a non indicare la circostanza dell’effettivo rispetto dei requisiti previsti dalla stessa legge. È proprio a causa di questa omissione informativa che l’INPS ha ritenuto sussistenti i requisiti previsti dalla legge.

 

Osservazioni finali e implicazione dei principi dettati dalla sentenza n. 11969/2025 delle Sezioni Unite

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La recente sentenza delle Sezioni Unite chiarisce l’interpretazione dell’art. 316-ter del c.p., stabilendo che il reato può sussistere anche senza la presenza di artifici, raggiri o inganni da parte del soggetto agente. Come detto precedentemente, viene, inoltre, definito il momento in cui il reato si perfeziona nei casi in cui i contributi pubblici vengano erogati in più fasi. Questo orientamento avrà rilevanti conseguenze sui procedimenti legati all’ottenimento illecito di fondi pubblici, poiché definisce in maniera più nitida i limiti della responsabilità penale in tale ambito.

Le Sezioni Unite precisano che il reato di indebita percezione di contributi pubblici può verificarsi anche senza un pagamento diretto di denaro da parte dell’ente pubblico di riferimento. È sufficiente che il soggetto ottenga un beneficio economico a danno dello Stato, come nel caso di sgravi contributivi non dovuti. Pertanto, anche il risparmio ottenuto in questo modo è considerato un’erogazione pubblica, in quanto riduce costi che altrimenti spetterebbero all’impresa.



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