L’Università l’Orientale di Napoli è un unicum nel panorama accademico italiano: un ateneo piccolo per dimensioni ma con un profilo iper-specialistico che lo rende punto di riferimento nello studio delle lingue e delle culture del mondo. Ne parla il rettore Roberto Tottoli, originario di Brescia, che da osservatore esterno e insieme protagonista del contesto napoletano, offre uno sguardo nitido sui cambiamenti della città e sulle prospettive per le nuove generazioni.
Rettore, ha letto il fondo del direttore Napoletano che invitava i giovani a restare a Napoli. Come lo interpreta?
«Lo considero un segnale forte. Negli ultimi dieci anni Napoli è cambiata molto. Si è rafforzato il tessuto produttivo, sono cresciute le attività di formazione a più livelli e l’attrattività verso l’esterno è aumentata. Oggi la città è un centro produttivo a 360 gradi. Le università, ciascuna con le proprie competenze e dimensioni, svolgono un ruolo essenziale in questa trasformazione».
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Lei proviene dalla Lombardia, tradizionalmente motore economico del Paese. Nota differenze o convergenze con la realtà campana?
«Il divario Nord-Sud non è più quello di trent’anni fa. Quando frequentavo Napoli negli anni Novanta per il dottorato, lo scenario era diverso. Nell’ultimo decennio, e in particolare gli ultimi 3-4 anni, c’è stato un cambio di passo: non solo nell’attrattività culturale, ma anche industriale ed economica. Napoli e il suo hinterland sono sempre stati competitivi, con fatturati che non hanno nulla da invidiare ad altre aree. A questo si aggiunge un dato demografico cruciale: la Campania ha ancora una presenza consistente di giovani italiani formati e produttivi, cosa che altrove si è ridotta. Non a caso grandi società italiane e straniere vedono oggi nel territorio napoletano e campano un polo strategico».
Dal suo osservatorio accademico, quali segnali concreti coglie di questo cambiamento?
«Un primo dato: nell’ultimo anno, al nostro ateneo sono rientrati quattro docenti, tra italiani e stranieri, su un totale di 260. È il 2% del corpo docente. In una realtà piccola come l’Orientale sembra poco, ma se lo proiettiamo su università più grandi parliamo di cifre importanti. Un secondo esempio: dal 2021 a oggi abbiamo attratto oltre 20 milioni di euro di risorse esterne per contratti, progetti e convenzioni di ricerca. Risorse che restano sul territorio. E poi le richieste da parte di aziende, che vengono per offrire un lavoro di rilievo ai nostri laureati. È la dimostrazione che la benzina per crescere c’è».
Eppure, i napoletani stessi faticano a credere a questo cambiamento.
«Sì, spesso vedo scetticismo. Prima di venire a Napoli ho insegnato a Torino, a fine anni Novanta, quando si preparavano le Olimpiadi. Ricordo bene i torinesi “vecchio stile” che condannavano quei lavori. Alla fine hanno cambiato il volto della città, da grigia a capitale dei musei. Oggi a Napoli noto una resistenza simile: c’è la tendenza, che in realtà è italiana e non strettamente partenopea, alla lamentela continua. È un freno che impedisce di cogliere quanto di positivo stia accadendo. Naturalmente, restano i limiti: il quadro normativo nazionale è complesso, lento, poco trasparente per chi viene dall’estero. Questo è un ostacolo che pesa su tutti noi rettori e su chi vuole investire».
L’Orientale è un ateneo con caratteristiche peculiari. Quali sono i punti di forza e le criticità del placement dei vostri laureati?
«Non siamo giurisprudenza, economia o ingegneria, dove gli sbocchi professionali sono già tracciati. Eppure le nostre competenze linguistiche e culturali hanno grande valore, come le ho già detto. Lo vediamo con tutti i nostri studenti e in particolare quelli di coreano: oltre la metà trova lavoro già dopo il primo anno, grazie ai rapporti con aziende coreane che oggi sono tra i giganti dell’economia mondiale. Non formiamo figure professionali rigide, ma laureati capaci di muoversi in contesti diversi. Napoli, con le imprese che si aprono al Mediterraneo, offre possibilità nuove. E i nostri laureati hanno come patria ideale il mondo intero: restare in città è un’opzione, ma non un vincolo».
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E i rapporti con il tessuto produttivo locale?
«Abbiamo già accordi con importanti aziende napoletane. Nel prossimo anno lanceremo almeno un master, ma probabilmente due, in collaborazione con grandi realtà industriali. Sono loro stesse ad averci chiesto di formare figure con competenze specifiche, legate ai mercati internazionali e alle dinamiche commerciali. È la prova che i nostri laureati sono riconosciuti come risorsa preziosa. Le imprese apprezzano la loro capacità di adattamento, ma chiedono anche più cultura aziendale e digitale. Per questo stiamo lavorando a percorsi che colmino questa lacuna, così da facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro».
In definitiva, qual è la sfida per Napoli e per l’Orientale?
«Far capire che non siamo più alla finestra. Napoli ha cambiato passo. Le università, con la loro capacità di attrarre risorse, talenti e collaborazioni, sono parte integrante di questa trasformazione. Tocca a noi convincere i giovani a crederci e a investire nel loro futuro qui, senza sentirsi costretti ad andarsene. Se il sistema produttivo ha già iniziato a bussare alle porte dell’accademia, allora vuol dire che la strada intrapresa è quella giusta».
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