Sono sempre stato scettico sull’emissione di titoli di debito comune europeo, ma ora trovo validi motivi per cambiare opinione. E ciò perché oggi questo viene proposto come strumento di rafforzamento del mercato finanziario europeo e non più come condivisione dei rischi o per espandere la capacità di indebitamento. Le iniziali proposte di superare la dimensione nazionale del debito sembravano un espediente volto a eludere i limiti alla possibilità di raccolta di risorse sui mercati finanziari internazionali. Nacquero, o si diffusero, negli anni Dieci quando il rischio di default era molto diverso fra i vari Paesi dell’euro. Abbiamo familiarizzato con il termine spread, il divario di rendimento fra i titoli della Germania, reputati i più sicuri, e quelli degli altri Stati. L’Italia ha detenuto a lungo il non invidiabile primato dello spread più alto. Per inciso, oggi il nostro spread è molto calato, si è avvicinato a quello della Francia e della Spagna, ma è superato solo da quello dell’Ungheria e della Repubblica Ceca. In quella fase il ricorso a titoli dell’Unione sembrava un mezzuccio per mascherare la nostra debolezza dietro il paravento dell’appartenenza al sistema sovrannazionale. Ma così sarebbe venuto meno il pungolo al risanamento dei conti, donde la mia contrarietà alla proposta. Poi la pandemia e il successivo massiccio piano di investimenti dell’Unione, fra cui il nostro Pnrr, hanno determinato un ingente fabbisogno di risorse per l’Europa.
Molti hanno suggerito, di nuovo, il ricorso diretto dell’Ue ai mercati finanziari con titoli di propria emissione. Anche in questo caso sarebbe stato uno strumento per facilitare l’espansione del debito e quindi incontrava ancora la mia contrarietà. Non bisogna dimenticare che, al di fuori di questa situazione, l’Europa già accede direttamente ai mercati. Il fatidico, o famigerato, Mes, lo strumento di intervento per le situazioni di crisi finanziarie nell’Unione che l’Italia non ha ancora ratificato, sta accumulando la propria consistente dote patrimoniale emettendo propri titoli, che sono ovviamente un debito comune. Il mercato degli investitori istituzionali a cui erano riservati li ha accolti di buon grado.
Oggi l’idea si ripresenta in modo radicalmente diverso e con finalità condivisibili. La presenza di un titoli comune diventerebbe il punto di riferimento del mercato finanziario europeo; sarebbe il pivot del sistema dei tassi di interesse dell’euro; costituirebbe il safe asset rispetto al quale misurare il rischio dei singoli Paesi e di tutti gli altri emittenti. Non più spread verso il bund tedesco, che è comunque sempre solo un pezzo dell’Europa, ma nei confronti del titolo comune. Agevolerebbe la politica monetaria, che oggi deve fare i conti con un mercato obbligazionario frammentato. Oggi quando la Bce deve fare operazioni sul mercato, deve acquistare tot titoli tedeschi, tot italiani, tot francesi, complicando molto la sua gestione e l’immediatezza degli interventi. Il titolo di debito comune europeo sarebbe uno strumento ottimale come riserva per tutte le banche centrali del mondo e accrescerebbe il ruolo dell’euro come valuta globale, insieme al nascituro euro digitale. Rafforzerebbe la struttura del mercato obbligazionario e finanziario europeo a vantaggio della sua integrazione e della possibilità di finanziamento anche delle imprese private. Ben altra cosa rispetto a una scorciatoia per fare più debito o per farlo più facilmente.
Quando John Maynard Keynes venne criticato per avere modificato la sua teoria della spesa pubblica rispose: «Quando cambiano i fatti io cambio opinione. E lei?».
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