L’inarrestabile boom delle armi che ormai si alimenta da solo


La bolla che da tre anni spinge la retorica bellicista e la robusta crescita (nei bilanci e nelle previsioni) delle spese militari si sta ora concretizzando in nuove forme. Un’inchiesta del Financial Times partita dall’analisi di immagini satellitari evidenzia come le fabbriche di armamenti stiano allargando (triplicando) le strutture dall’invasione russa dell’Ucraina in poi. I numeri del FT sono chiari: 7 milioni di metri quadrati di nuovi sviluppi in 150 siti di 37 aziende legate alla produzione di munizioni e missili.

Non semplici dettagli, ma indicatori di qualcosa di profondo: l’aumento delle spese militari non porta solo più fondi agli eserciti (per acquisti o operatività) ma comporta una trasformazione industriale (e quindi economica) concreta, diretta, di prospettiva. Perché un aumento repentino di spesa militare non si realizza con crescita di operazioni militari o di numero di soldati (strutture e reclutamento richiedono tempi più lunghi) ma con una strada più gradita agli interessi armati: aumentare l’acquisto e produzione di armi cioè, in sintesi, far crescere l’industria bellica. Nel giro di pochi anni, flussi enormi di denaro pubblico finiscono nei bilanci di aziende che, per loro natura, hanno grande interesse a veder perdurare un clima di instabilità. E che oggi stanno impiegando tali fondi anche per incrementare strutture e capacità produttive.

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Dietro le quinte il quadro è ancor più inquietante. Le principali aziende della difesa sono controllate in larga parte da mega fondi di investimento globali (BlackRock, Vanguard, Kkr…) che dominano i settori strategici dell’economia mondiale e rimangono in piedi anche grazie alla bolla creata dall’aumento costante di spesa militare. Senza questo flusso garantito i loro profitti e la loro stessa centralità nei mercati globali verrebbero messi in discussione, perché il modello di business si fonda sulla costanza di rendimenti azionari legati a una spesa pubblica (come quella militare) che non subirà mai tagli improvvisi in contesti di «insicurezza permanente».

Il risultato è un circolo vizioso che si autoalimenta: le tensioni geopolitiche spingono i governi ad aumentare le spese militari, questi flussi di denaro rafforzano i bilanci delle industrie belliche aumentandone il valore azionario, gli azionisti di riferimento – che così hanno aumentato il proprio portafoglio – hanno grande interesse a consolidarne l’andamento finanziario per cui ogni passo verso la pace viene vissuto come una minaccia economica.

Da qui un evidente rischio di «impoverimento» dello scenario industriale ed economico europeo, già in crisi per diversi fattori strutturali, che subisce la mancanza di investimenti in settori chiave (innovativi e socialmente più utili e produttivi) per foraggiare il comparto, militare strutturalmente meno vantaggioso. Fino quando i conti publici degli Stati europei lo permetteranno (con alchimie di bilancio, maggiore debito per le generazioni future e sanguinosi tagli alla spesa sociale) le aziende militari avranno un sistema diretto per aumentare i fatturati a spese della collettività. Ma poi, visto che a ogni flebile barlume di negoziato i titoli dei colossi del settore perdono valore (la pace, in questa logica, non è una buona notizia ma solo una minaccia per il business)?

La lobby armata ripete da tempo di aver bisogno di ordini a lungo termine per coprire gli investimenti legati all’aumento di produzione e la sola retorica di deterrenza e «paura del nemico» non potrà mai assorbire tali livelli aumentati di produzione (le capacità di stoccaggio sono limitare e c’è il tema dell’obsolescenza). Un solo altro sbocco è possibile: l’esportazione fuori dall’Ue, che andrà in gran parte a regimi autoritari e paesi in crisi e/o in conflitto, come avviene da tempo. Non è un caso che sia a livello dell’Unione che nei singoli Stati membri, compresa l’Italia, siano già partiti diversi attacchi alle norme che controllano la vendita di armamenti: niente dovrà ostacolare gli affari di un’industria ormai abituata ad un alto livello di guadagno. La militarizzazione dell’Ue evidenziata dall’allargamento delle fabbriche di armi sta quindi esacerbando la corsa globale agli armamenti che a sua volta alimenta violenza e povertà, con una grave minaccia per pace e sicurezza umana.

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Questa situazione ormai sempre più concreta e lampante ci pone una domanda urgente: fino a che punto vogliamo legare la nostra economia e la nostra occupazione alla produzione di armi? Perché la retorica di chi spinge ad armarsi «per sicurezza e democrazia» nasconde spesso una realtà più semplice: un trasferimento di risorse pubbliche verso un settore che per sua natura prospera nella guerra ma ha tutto da perdere dalla pace.



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