Il management ha (ancora) senso?





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In un’epoca segnata da un’incertezza crescente, crisi multiple e volatilità costante, sia nella società sia nei mercati, le imprese si trovano ad affrontare sfide senza precedenti. Le crisi economiche globali, le tensioni geopolitiche, le emergenze sanitarie e i rapidi avanzamenti tecnologici hanno reso il contesto competitivo estremamente instabile e complesso. Le dinamiche di innovazione accelerano, i modelli di business tradizionali sono messi in discussione e le aspettative degli stakeholder cambiano rapidamente. In questo scenario turbolento, le aziende non possono più affidarsi esclusivamente a strategie basate su previsioni lineari, obiettivi a breve termine e rigidi sistemi di pianificazione. La volatilità dei mercati e la complessità delle sfide richiedono una maggiore capacità di adattamento e una visione più profonda, critica e consapevole delle proprie attività. Diventa quindi essenziale per le imprese rifocalizzarsi sul perché del loro operato, ossia sul senso che guida le loro azioni e decisioni.

Allo stesso tempo, la crisi non è solamente relativa al contesto esterno, sociale o di mercato. La profondità di questa crisi porta anche a ridiscutere le teorie e i modelli di management che hanno guidato le strategie di business negli ultimi decenni e che sembrano essere entrati in crisi. Tuttavia, persistono ancora alcuni dogmi, figli di scuole di pensiero e contesti scientifici in molti casi superati, che portano le aziende ad abbracciare in modo irriflesso e acritico determinati obiettivi e linee di azione. Questi dogmi si manifestano in pratiche manageriali focalizzate esclusivamente sulla massimizzazione del profitto a breve-medio termine, sulla competizione interna esasperata, su strutture organizzative rigide e sistemi decisionali gerarchici. La persistenza di tali convinzioni ostacola l’evoluzione delle imprese, impedendo loro di adattarsi efficacemente alle nuove realtà del mercato.

Diventa quindi fondamentale oggi far emergere questi dogmi e analizzarli alla luce delle contraddizioni che hanno prodotto, guidati da un pensiero critico-costruttivo in grado di indicare la via per un loro superamento. Questo approccio ci permette di mettere in discussione le assunzioni di base che hanno guidato le pratiche manageriali finora, aprendo la strada a nuove prospettive e modelli più adatti al contesto attuale.

La filosofia del management è in crisi

Ogni pratica, e quindi anche quella del management, ha una sua filosofia, ovvero si fonda su un costrutto di saperi, teorie, modelli e modi di procedere orientati a degli scopi. Questa filosofia, così come i suoi scopi, spesso rimane implicita, ma non per questo cessa di essere attiva nel produrre risultati, azioni e discorsi. È proprio questa filosofia implicita che determina come un’organizzazione interpreta il suo ruolo nel mondo, come prende decisioni e come interagisce con i suoi stakeholder.

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Portare alla luce questa filosofia significa riconoscere che vi è la necessità di porre nuovamente a tema il purpose dell’agire aziendale, ossia il suo senso e il suo valore. L’implicito potere generativo del purpose può rappresentare una chiave per formulare e sperimentare nuovi modelli di management e di impresa.

Il concetto di purpose, come osservato dalla professoressa Claudine Gartenberg, ha radici profonde nella teoria organizzativa, emergendo già agli inizi del XX secolo con Mary Parker Follett, che lo descrisse come il “leader invisibile” delle organizzazioni. Questo pensiero fu poi ulteriormente sviluppato da studiosi come Chester Barnard e Philip Selznick, che considerarono il purpose un meccanismo fondamentale per superare i problemi di azione collettiva e definire il successo organizzativo. Negli ultimi decenni, tuttavia, è stato relegato ai margini delle discussioni in campo organizzativo, mentre prevalevano paradigmi centrati su obiettivi economici e approcci decisionali rigorosi e razionali. Solo recentemente, grazie alla crescente enfasi attribuita all’importanza degli asset intangibili, come il capitale umano e quello relazionale, il purpose ha riguadagnato centralità, venendo riconosciuto come un fattore critico per la competitività delle imprese e per il loro impatto sociale.

Oggi, il purpose è un tema di grande interesse e, al tempo stesso, altamente controverso. Da un lato, numerosi studi empirici mostrano che un purpose ben definito e autenticamente implementato può migliorare la performance economico-finanziaria di un’organizzazione, specialmente quando è accompagnato da chiarezza e coerenza nella gestione. Dall’altro lato, il dibattito è reso complesso dalle critiche che vedono nel purpose un concetto spesso strumentalizzato per giustificare il mancato raggiungimento di obiettivi economici, come evidenziato nei recenti attacchi a modelli aziendali che enfatizzano il purpose a scapito della crescita dei risultati di natura economica.

Questa tensione riflette un passaggio culturale più ampio, ben descritto da Roy Suddaby, secondo cui la legittimità aziendale è sempre più giudicata sulla base dell’autenticità e della coerenza con gli impegni verso gli stakeholder, piuttosto che sull’aderenza esclusiva a standard economici tradizionali. Pertanto, il purpose non è solo una questione di comunicazione aziendale, ma una dimensione fondamentale che interseca strategia, governance e sostenibilità, e che richiede un’attenzione critica sia da parte degli studiosi che dei manager. Riconoscere il potere generativo del purpose nella formulazione di nuovi modelli di management significa comprendere che le aziende non sono semplicemente macchine per generare profitto, ma attori sociali con una responsabilità verso la collettività e verso la storia. Il purpose diventa così il fulcro attorno al quale costruire strategie, processi e culture organizzative

L’articolo intero è pubblicato su Sviluppo&Organizzazione Gennaio/Febbraio 2025.
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organizzazioni, purpose, senso, lavoro



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