55 nazioni frenano sull’imposta minima. Ostacoli politici e conseguenze


L’idea di una tassa minima globale sulle multinazionali nasce nel 2021 all’interno dell’Inclusive Framework OCSE/G20, con l’obiettivo dichiarato di contrastare la concorrenza fiscale sleale e lo spostamento artificioso dei profitti verso giurisdizioni a bassa imposizione. Il meccanismo, noto come Pillar Two, prevede un’aliquota minima effettiva del 15% applicata ai gruppi con ricavi superiori a 750 milioni di euro, con tre strumenti distinti: l’imposta minima domestica qualificata (QDMTT), l’imposta integrativa (IIR) e l’imposta minima suppletiva (UTPR). L’intento era creare un sistema a tenuta stagna, capace di assicurare che le imprese di dimensioni globali contribuissero in maniera equa ovunque operino. Le prime stime dell’OCSE parlavano di un gettito aggiuntivo potenziale di 220 miliardi di dollari annui, una cifra che avrebbe potuto ridisegnare le entrate fiscali di numerosi Paesi e ridurre drasticamente la corsa al ribasso delle aliquote societarie.

Il percorso di attuazione si è dimostrato più complesso del previsto. L’Unione Europea ha agito con la direttiva 2022/2523, recepita da ventidue Stati membri, mentre altre cinque nazioni – tra cui Lituania, Slovacchia, Malta, Lettonia ed Estonia – hanno scelto di rinviare o limitare il recepimento, in alcuni casi fino al 2030. Al di fuori del blocco europeo, le adesioni sono state frammentarie: in totale, 55 Paesi hanno introdotto almeno una parte delle norme, ma l’attuazione completa resta appannaggio di una minoranza. Tra i nuovi entrati figurano Stati del Golfo come Qatar, Emirati Arabi Uniti e Oman, territori d’oltremare britannici come Jersey e Gibilterra, e alcune economie avanzate come Canada, Australia e Brasile.

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Il colpo di scena del G7 e l’effetto side-by-side

L’equilibrio costruito in tre anni ha subito una scossa a fine giugno 2025, quando il G7 riunito a Kananaskis, in Canada, ha raggiunto un’intesa inattesa. Gli Stati Uniti, sotto la presidenza di Donald Trump, hanno ottenuto un’esenzione di fatto dalla Global Minimum Tax per le multinazionali con capogruppo (UPE) registrata negli USA. Queste imprese saranno soggette alla normativa fiscale americana – che già comprende strumenti anti-erosione come GILTI (Global Intangible Low Taxed Income), BEAT (Base Erosion and Anti-Abuse Tax) e CAMT (Corporate Alternative Minimum Tax) – evitando così le componenti IIR e UTPR previste dal Pillar Two. In pratica, il G7 ha sancito la coabitazione di due sistemi paralleli, definita side-by-side approach, lasciando agli Stati la possibilità di riconoscere la normativa USA come equivalente a quella OCSE.

Le motivazioni politiche di questa svolta sono chiare. L’amministrazione Biden aveva tentato di far approvare la Global Minimum Tax anche negli Stati Uniti, ma la proposta era stata bloccata dal Congresso a maggioranza repubblicana. Con il cambio di leadership e l’arrivo di Trump, la strategia si è ribaltata: minacce di ritorsioni fiscali verso gli alleati, seguite dall’accordo che ha escluso i gruppi americani dalla piena applicazione del Pillar Two. Questa concessione ha suscitato critiche nell’Unione europea e in altri Paesi già in fase avanzata di attuazione che ora si trovano a competere con colossi statunitensi esenti da parte della normativa.

Le ricadute sull’equilibrio fiscale internazionale

Le conseguenze di questa deroga potrebbero essere di vasta portata. La più immediata è il rischio di delocalizzazione di grandi gruppi verso gli Stati Uniti per beneficiare del regime fiscale privilegiato, con un impatto diretto sugli investimenti e sull’occupazione nei Paesi che applicano integralmente la Global Minimum Tax. In Europa, molte imprese potrebbero trovarsi penalizzate da un doppio svantaggio: da un lato, l’esposizione a dazi o misure protezionistiche statunitensi; dall’altro, la concorrenza di società americane esenti dalle imposte integrative. Questo scenario apre la strada a una possibile riaccensione della competizione fiscale tra Stati.

Un’altra area di incertezza riguarda la stabilità giuridica della normativa. La Corte costituzionale del Belgio ha recentemente ammesso un ricorso contro l’UTPR, rimettendo la questione alla Corte di Giustizia dell’UE per valutarne la compatibilità con il diritto comunitario. Un’eventuale sentenza sfavorevole potrebbe indebolire l’intera architettura del Pillar Two all’interno dell’Unione. Nel frattempo, alcuni Paesi a bassa tassazione stanno già studiando modifiche alle proprie imposte domestiche per renderle qualificate secondo i criteri OCSE, riducendo così l’impatto delle imposte integrative. Barbados, ad esempio, applica già un’imposta domestica che scatta solo in presenza di imprese locali a bassa imposizione.

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Incognite per il futuro della riforma

Il compromesso raggiunto al G7 non è ancora formalmente integrato nel quadro dell’Inclusive Framework, e ogni modifica alla direttiva europea richiederebbe l’unanimità degli Stati membri. Alcuni, come Francia, Germania e Italia, sembrano orientati a sostenere una soluzione pragmatica per evitare uno scontro diretto con Washington e preservare almeno in parte la coerenza della riforma. Le tempistiche restano incerte: qualsiasi revisione significativa potrebbe slittare almeno al 2026, anno in cui scade anche la misura transitoria più rilevante, il CbCR safe harbour, che semplifica i calcoli per la prima applicazione.

Resta da capire se l’approccio side-by-side possa davvero coesistere a lungo termine con il regime OCSE. Se la normativa statunitense continuerà a risultare più favorevole, il rischio è quello di un vantaggio competitivo strutturale per le multinazionali americane, capace di attrarre capitali e sedi operative a discapito delle altre giurisdizioni. In questo contesto, India e Cina, entrambe finora ai margini dell’attuazione, potrebbero chiedere deroghe simili.

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