Svizzera. Un “piccolo” paese, un “grande” dell’imperialismo capitalista – NAUFRAGHI/E


Come mai la piccola e neutrale Svizzera subisce un affronto così grande da parte degli Stati Uniti di Donald Trump che ha fissato al 39% i dazi sulle merci provenienti dalla Svizzera? “Peggio” sono stati trattati solo altri tre o quattro paesi, ed alcuni per ragioni in parte di ritorsione politica (come il Brasile).

In realtà lo si capisce meglio se ci si ricorda che la Svizzera non è un paese né piccolo né neutrale, ma è un paese imperialista. Anzi, uno dei più importanti paesi imperialisti. Questo ruolo, tuttavia, è stato spesso offuscato dal fatto che non ha mai partecipato, in quanto Stato e direttamente, né a esperienze coloniali né a interventi armati (anche se la partecipazione di commercianti svizzeri alle imprese coloniali ha fatto parlare di “colonialismo senza colonie”).

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Senza voler scomodare Lenin, la cui analisi dell’imperialismo all’inizio del secolo scorso resta ancora oggi fondamentale sotto molti aspetti, basterà qui ricordare due elementi centrali che definiscono l’imperialismo come sistema di dominazione economica globale: da un lato, la concentrazione del capitale bancario e la formazione del capitale finanziario; dall’altro, l’esportazione di capitale e di merci che genera un atteggiamento predatorio (in termini di sfruttamento delle risorse, di manodopera e, di conseguenza, di appropriazione di plusvalore).

Per comprendere quanto questo sia uno dei tratti distintivi del capitalismo svizzero e del suo ruolo imperialista, bastano alcuni dati forniti dalla SECO (Segreteria di Stato all’Economia), che descrivono così la proiezione internazionale del capitalismo elvetico: “Secondo la Banca nazionale svizzera, il valore statistico degli investimenti diretti realizzati da operatori svizzeri in sedi estere di produzione, distribuzione e ricerca ammonta a più di 1.400 miliardi di franchi. Non si tratta soltanto di grandi gruppi: tra questi operatori vi sono anche diverse migliaia di piccole e medie imprese (PMI), che complessivamente occupano quasi 2,2 milioni di persone all’estero. I redditi derivanti da investimenti diretti svizzeri all’estero ammontano a circa 100 miliardi di franchi… Rispetto ad altri paesi, gli investimenti diretti svizzeri all’estero risultano particolarmente elevati, come dimostra il rapporto tra il loro valore e il Prodotto Interno Lordo (PIL). L’importanza degli investimenti svizzeri all’estero per l’economia nazionale è evidente anche osservandone l’evoluzione nel tempo: dal 2010 il volume dei capitali svizzeri investiti all’estero è più che raddoppiato (e quadruplicato dal 2000)”.

Il capitalismo svizzero e la sua politica imperialista sono quindi importanti, ben al di là della limitatezza del territorio e del numero degli abitanti della Svizzera. D’altronde, il dato ripetuto a più riprese in queste ultime ore secondo il quale la Svizzera è il sesto più importante investitore negli Stati Uniti non fa che confermare questo ruolo.

Un ruolo che viene confermato non solo per gli Stati Uniti, ma a livello mondiale. Ce lo conferma ancora una volta la SECO: Con più di 1.400 miliardi di franchi di investimenti diretti all’estero (dati BNS), la Svizzera rientra tra i principali dieci esportatori di capitali a livello mondiale”.
E sono quelli appena richiamati gli elementi che “spiegano” la particolare aggressività degli USA nei confronti della Svizzera (piccolo richiamo storico: negli ultimi decenni spesso gli USA sono stati artefici di campagne tese a mettere in cattiva luce aspetti fondamentali del concorrente capitalismo elvetico; basti pensare alla campagna sulla questione degli averi ebraici in giacenza non rivendicati).

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Trump sta conducendo una battaglia concorrenziale contro gli altri blocchi capitalistici (in primis Cina e Unione Europea) e non vi è alcuna ragione per la quale non debba estendere questa battaglia a paesi che sono oggettivamente concorrenti degli Stati Uniti e delle sue imprese come lo sono le migliaia di imprese svizzere – grandi e piccole – che agiscono sul mercato americano, ma anche in altri paesi nei quali sono spesso anche in concorrenza con imprese americane.

E non può certo salvare la Svizzera il goffo tentativo di richiamarsi alla propria neutralità – vecchio modello o nuovo modello “dinamico”. Il gioco di un paese che ha sempre usato la sua dichiarata neutralità per schierarsi con i potenti non regge più.

In un articolo del 2008, tuttora di grande attualità, lo storico Sébastien Guex definiva il ruolo imperialista della Svizzera come “mascherato” o “impercettibile”, spiegandolo in questi termini: “La borghesia industriale e bancaria svizzera si è mossa da molto tempo in modo mascherato: mascherata dietro la neutralità politica, ossia agendo nell’ombra delle grandi potenze coloniali e imperialiste (Gran Bretagna, Francia, Germania, Stati Uniti); mascherata dietro una propaganda onnipresente che cerca – e spesso riesce – a presentare la Svizzera come il paese della politica umanitaria, attraverso la Croce Rossa, i buoni uffici, la filantropia, ecc.; infine, mascherata da una narrazione complementare, quella della ‘retorica della piccolezza’, che raffigura la Svizzera come un Davide contro i Golia, un piccolo Stato debole e inoffensivo”.
La musica è cambiata perché le contraddizioni, la concorrenza e i rapporti di forza all’interno dell’imperialismo e del capitalismo mondiale sono in una fase profonda di trasformazione nella quale gli USA di Trump, dietro ad un’apparente atteggiamento “protezionistico”, vogliono riaffermare una egemonia economica e militare che, negli ultimi anni, ha subito qualche contraccolpo.

A noi spetta contestare con forza l’“union sacrée” che in questo momento si sta diffondendo “a difesa della nostra industria” e della sua “competitività”, con l’idea che, se così non fosse, si dovrebbero tagliare posti di lavoro o contenere ulteriormente i salari. Oppure, se si vuole mantenere qualche posto di lavoro – ma il padronato non garantisce – governi federale e cantonali devono mettere mano al portafoglio con sgravi fiscali, aiuti – indiretti – alle aziende, flessibilizzazione e liberalizzazione ulteriore del mercato del lavoro, ecc.

Nessuno sembra ipotizzare altre vie, diverse da quelle che colpiscono salari e occupazione o che tolgono mezzi all’ente pubblico con conseguenti ricadute dal punto di vista della spesa pubblica. Una di queste vie sarebbe semplice: la riduzione dei profitti delle imprese.

Il settore farmaceutico, per ora escluso dalla misura tariffaria, anche se è verosimile che verrà prima o poi colpito (da solo rappresenta il 60% delle esportazioni svizzere negli USA), ne è uno splendido esempio. Secondo alcune stime, l’estensione dei dazi anche a questo comparto comporterebbe un calo degli utili annuali compreso tra i 500 e gli 800 milioni di franchi per Novartis e fino a un miliardo per Roche. Vale la pena a questo punto ricordare che, negli ultimi tre anni, Roche ha accumulato utili netti per circa 47 miliardi di franchi, e Novartis per circa 28 miliardi. Le diminuzioni dei profitti ipotizzate, come si vede, sono del tutto sopportabili per l’azienda e i suoi azionisti e le sue azioniste.

Chissà quanto sarà turbata, in questi giorni di festa al Film Festival di Locarno, la presidente del Festival nonché azionista di Roche, Maja Hoffmann

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