L’art. 37 L. 193/2024 è intervenuto in modo deciso nel settore dei buoni pasto, con una previsione che promette di cambiare radicalmente le “regole del gioco” per esercenti, imprese emittenti e datori di lavoro. Alla base di questo intervento c’è la volontà di mettere ordine in un sistema da tempo considerato sbilanciato e poco equo, soprattutto nei confronti dei piccoli esercenti.
Sul punto occorre notare che l’ultimo periodo ha visto affacciarsi in tale mercato alcuni player che hanno puntato su una maggiore sostenibilità verso gli esercenti, calmierando o non richiedendo commissioni agli stessi.
Gli esercenti
I buoni pasto, come è noto, sono degli strumenti di pagamento utilizzati per acquistare pasti o alimenti, in sostituzione del servizio mensa. Nel corso degli anni, però, questo sistema si è trasformato in un mercato vero e proprio, dominato da società emittenti che offrono i buoni, in formato cartaceo o digitale, ai datori di lavoro, i quali li distribuiscono poi ai dipendenti.
L’art. 51 c. 2 lett. c) TUIR ricomprende la loro esclusione dalla base imponibile (fino a 4 euro giornalieri per i buoni cartacei e 8 euro per quelli elettronici) andando a renderli strumento accattivante per aziende e dipendenti.
Il problema nasce nel momento in cui questi buoni devono essere “incassati” dagli esercenti, ossia ristoranti, bar, supermercati, gastronomie. Per ogni buono accettato, l’esercente deve infatti pagare una commissione all’impresa emittente. Tale commissione dovrebbe coprire il servizio di intermediazione, ma è giunta a percentuali notevoli sul valore del buono (15-20%). Ciò ha portato alcuni esercenti a rifiutare i buoni pasto, rendendoli meno utili per i lavoratori e creando squilibri nel sistema.
La nuova norma introduce un tetto massimo del 5% sul valore nominale del buono come commissione massima che le imprese emittenti possono richiedere agli esercenti. Questo limite vale sia per i buoni cartacei che per quelli elettronici e include anche ogni eventuale servizio aggiuntivo fornito all’esercente (come ad esempio portali online, assistenza o report).
In altre parole, la norma impone che il costo massimo sostenuto dall’esercente per accettare un buono pasto non possa superare il 5% del suo valore, qualunque sia il tipo di contratto o accordo stipulato con l’emittente.
Viene inoltre previsto che tutte le clausole contrattuali che impongono condizioni peggiori agli esercenti, come ad esempio commissioni più alte, sono da considerarsi nulle, riportando la commissione al tetto massimo del 5%.
Le società emettenti
Il legislatore ha previsto un periodo transitorio per permettere al mercato di adeguarsi gradualmente a questo nuovo equilibrio.
Il tetto massimo alle commissioni entra in vigore dal 18 dicembre 2024 per le nuove convenzioni con esercenti che non erano già vincolati da contratti con emettitori di buoni.
A partire dal 1° settembre 2025 invece, la norma sarà applicabile anche agli accordi in corso, cioè a quelli stipulati prima della legge.
Per quanto riguarda i buoni pasto emessi entro il 1° settembre 2025 potranno ancora essere regolati dalle vecchie condizioni, ma non oltre il 31 dicembre 2025. Dopo tale data, tutte le condizioni dovranno adeguarsi al nuovo limite.
È ovvio che tale meccanismo va a toccare, e non di poco, i margini delle aziende emittenti di buoni pasto che, di conseguenza, non potranno più applicare sconti (anche molto importanti) alle aziende che acquistano tali buoni.
Per tale motivo, a partire dal 1° settembre 2025, le imprese emittenti potranno recedere da dai contratti con le aziende senza dover pagare penali o indennizzi, anche se i contratti non prevedono questa possibilità. È un’eccezione espressamente prevista rispetto a quanto stabilito dal Codice civile, proprio per consentire un riequilibrio economico delle condizioni.
Se da un lato gli esercenti accolgono positivamente la norma, se le imprese emittenti decidessero di rinegoziare i contratti o di recedere da quelli esistenti, sarà necessario ridefinire rapidamente nuovi accordi per garantire la continuità del servizio ai dipendenti, ma ciò potrebbe, in ogni caso, comportare un aumento del costo per le aziende.
Le aziende
Cosa succede quindi per le aziende che hanno concesso i buoni pasto ai propri dipendenti?
Rinegoziando i contratti con gli emettitori dei buoni pasto potranno:
- continuare con il medesimo fornitore aumentando il loro costo;
- cercare nuovi fornitori per trovare migliori condizioni.
Tale aspetto però mette anche in gioco il rapporto con i dipendenti, anche per via, in alcuni casi, di scarsa regolamentazione rispetto a quanto concesso.
Su tale aspetto la recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 16171 del 16 giugno 2025, ha ribadito un principio molto importante in materia di uso aziendale e della sua modificabilità. La sentenza si riferisce a un caso che seppure non abbia attinenza con i buoni pasto definisce come un “uso” diventa regolamento e lo stesso possa essere modificato.
Infatti, la Cassazione ha chiarito che l’uso aziendale nasce dal comportamento costante, uniforme e generalizzato del datore di lavoro, anche in assenza di una specifica volontà scritta o espressa. Di conseguenza basta che l’azienda, nel tempo, abbia sistematicamente adottato un certo trattamento migliorativo nei confronti dei lavoratori per stabilizzarlo.
Tuttavia, l’uso aziendale non è immutabile: può essere modificato o anche superato, ma solo attraverso una disdetta formale, chiara, motivata e comunicata alla generalità dei lavoratori, nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza.
L’assenza di tale disdetta formale impedisce al datore di lavoro di agire unilateralmente, anche se lo scenario contrattuale o collettivo è mutato.
Questa pronuncia della Cassazione offre uno spunto molto utile se applicata al tema dei buoni pasto concessi dalle aziende. In molti casi, infatti, i buoni pasto sono stati concessi in modo privo di regolamentazione formale, magari come prassi consolidata ma non disciplinata da un regolamento aziendale o da accordi collettivi.
Alla luce di questa sentenza, se un’azienda ha erogato buoni pasto in maniera costante nel tempo, anche senza un regolamento scritto, questo comportamento può generare un uso aziendale, che assume valore vincolante nei confronti dei lavoratori.
Tuttavia, proprio come chiarito dalla Cassazione, l’azienda può modificare tale uso, ad esempio per adeguarsi a nuovi limiti normativi ed a nuove condizioni contrattuali, ma solo attraverso una comunicazione formale e motivata, che espliciti le ragioni del cambiamento e sia diretta a tutti i dipendenti.
Nel caso invece di accordo formale, o regolamentazione, sarà necessaria la verifica della durata e delle condizioni di modifica o recesso dalla stessa, in alcuni casi con salvaguardia proprio da eventuali interventi normativi che possano modificare lo status-quo.
In conclusione, in assenza di accordo formale l’azienda potrà motivare una modifica della disciplina dei buoni pasto determinata dalla rinegoziazione degli accordi commerciali che abbiano sostanzialmente cambiato l’impatto della misura, mentre, in caso di accordo o regolamento stipulato per iscritto sarà necessario verificare le caratteristiche della pattuizione.
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