Dollaro, inflazione, Pil: la Trumpnomics si scopre fragile. Ecco dove l’America rallenta


di
Federico Fubini

Vengono al pettine i nodi dei dazi e dell’incertezza per le accuse alla Fed. Gli investimenti delle imprese negli Stati Uniti calano di 260 miliardi

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Il 12 giugno 2015 l’indice azionario di Shenzhen crollò del 40% in poche ore. Poco dopo il partito comunista cinese fece dimettere il presidente della società di borsa, Gao Xiaojun, per presunti sforamenti di budget nella ristrutturazione della sede. Dieci anni più tardi — e senza crolli di borsa — si sta comportando nello stesso modo con la sua banca centrale il presidente degli Stati Uniti d’America. Da settimane Donald Trump cerca nei costi di un cantiere nel palazzo della Federal Reserve la «giusta causa» — cioè il pretesto — per licenziarne il capo, Jay Powell. E non si ferma lì. Venerdì, dopo l’uscita di numeri deboli sui nuovi posti di lavoro in America negli ultimi tre mesi, Trump ha fatto cacciare la commissaria del Bureau of Labor Statistics Erika McEntarfer, accusandola di aver manipolato i dati «per ragioni politiche». Nessun indizio è stato fornito a supporto dell’accusa.

Il peso degli Usa nel sistema economico-finanziario

Finora avevano scatenato vendette pubbliche contro gli statistici o i banchieri centrali, oltre la Cina, solo governi come l’Argentina, la Russia o la Turchia: autocrazie o sistemi fallimentari, non la superpotenza che emette la moneta dominante dell’economia globale, il volume più vasto e diffuso di titoli di Stato e che pesa da sola quasi la metà del valore di mercato delle borse mondiali. Donald Trump forse fa così semplicemente perché si sente molto sicuro di sé. O magari per il motivo contrario; perché gli indizi delle ultime settimane potrebbero far sorgere il sospetto che i nodi del suo stile e delle sue scelte di governo, pian piano, stiano tutti venendo impietosamente al pettine.




















































La calma apparente dell’inflazione

A prima vista, non è così. L’America va bene e continua a lasciare l’Europa a una distanza siderale. L’ultimo trimestre ha fatto registrare negli Stati Uniti una crescita del 3%, se si prolungasse per il prossimo anno il ritmo tenuto ad aprile, maggio e giugno. E l’inflazione sui consumi personali delle famiglie dagli ultimi dati è salita di appena il 2,6 per cento; i prezzi restano abbastanza freddi, con aumenti non lontani da dove li vuole vedere la Fed e comunque così sotto controllo da far pensare che Trump ci abbia visto giusto. Non sembra affatto che il maggiore aumento dei dazi dal 1930 stia generando l’ondata di rincari che molti critici del presidente annunciavano.

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Le dinamiche sottostanti

È soltanto quando si gratta sotto la superficie che tutto si complica. La prima superpotenza del pianeta ha ingranaggi più lenti ma più potenti di un post sul social media del suo tycoon. L’inflazione sta salendo già da mesi e proprio a causa dei dazi potrebbe accelerare da agosto, anche se questi sono scattati da aprile. Le tariffe sulle merci dall’estero, infatti, sono tasse. Per difendere i margini di guadagno, prima o poi gli importatori vorranno scaricarle almeno in parte sui prezzi nelle vetrine di New York o dei ristoranti a Chicago. Se per ora non lo hanno fatto granché, c’è un motivo: solo fra gennaio e marzo scorsi — dopo il giuramento di Trump, ma prima dei dazi stessi — quegli importatori avevano comprato merci estere per 211 miliardi di dollari in più rispetto allo stesso periodo del 2024; è stato un aumento di quasi un terzo, secondo lo US Census Bureau.

Scorte in esaurimento

I rivenditori americani di vini italiani, moda francese o chimica tedesca hanno riempito i magazzini entro marzo proprio per anticipare i rincari doganali. E finora sono riusciti a vendere in gran parte ciò che avevano comprato prima. Ora però le vecchie scorte stanno finendo e si vedrà l’11 settembre — quando uscirà il dato sull’inflazione americana di agosto — se i listini sulle nuove importazioni non saranno così sotto controllo. I rincari lenti degli ultimi mesi rischiano di diventare qualcosa di più pericoloso. Perché intanto nell’economia di Trump qualche crepa si nota, benché piccola a confronto delle voragini visibili in Italia, Germania o Francia. 

Il calo degli investimenti

La crescita del 3 per cento nel secondo trimestre è in gran parte l’effetto ottico della frenata delle importazioni (statisticamente, sottraggono al prodotto lordo) scattata da aprile, quando i dazi erano ormai in vigore e i magazzini pieni. Ma gli annunci, le frenate e le sterzate continue di Trump devono aver generato nevrosi e incertezza, perché gli investimenti netti delle imprese in America fra aprile e giugno sono crollati di 260 miliardi di dollari rispetto ai tre mesi precedenti (secondo la Fed di St. Louis). È un calo di un quarto e di solito si vede solo prima delle recessioni. La debolezza nell’apertura di nuovi posti di lavoro — costata la testa al messaggero dalla cattiva notizia, la capa del Bureau of Labor Statistics — si spiega così.

La crescente diseguaglianza

Ciò non significa che l’America di Trump vada verso una recessione. Le sette Big Tech — Nvidia, Microsoft, Meta, Alphabet, Apple, Amazon e Broadcom — continuano a investire migliaia di miliardi nell’intelligenza artificiale. Da sole valgono ormai oltre un terzo dello S&P 500, il grande listino di Wall Street, ma la loro non è ricchezza condivisa. Danno lavoro, magnificamente pagato, a pochi. E pochi altri condividono la loro prosperità sotto forma di azioni: l’uno per mille dei residenti più ricchi detiene patrimoni per 23 mila miliardi di dollari, cinque volte più dell’intera metà meno abbiente dell’America di Trump.

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2 agosto 2025

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