Così le regioni italiane si sono allontanate sempre di più dall’Europa


Se il 1995 rappresentava il momento di massimo allineamento tra le regioni italiane e il resto dell’Eurozona, i decenni successivi raccontano una storia diversa. A partire dal 2001, e in modo più marcato dopo la crisi del 2008, tutte le regioni italiane – comprese Lombardia, Piemonte e Veneto – hanno perso terreno. In particolare, il Pil pro capite delle principali regioni industriali è cresciuto molto meno rispetto a quello di molte regioni tedesche o francesi

A oltre vent’anni dall’introduzione dell’euro, le promesse di convergenza economica tra le regioni europee restano in gran parte disattese. E in questa traiettoria mancata, l’Italia emerge come uno dei casi più problematici. Secondo una recente analisi condotta su dati 1995-2023 (Moneta e Credito), le regioni italiane sono tra quelle che più di altre hanno sofferto in termini di investimenti, qualità della spesa pubblica, salari e specializzazione produttiva.

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Non solo il sud, ma anche le regioni del nord, storicamente trainanti, mostrano segnali di deterioramento strutturale. Se il 1995 rappresentava il momento di massimo allineamento tra le regioni italiane e il resto dell’Eurozona, i decenni successivi raccontano una storia diversa. A partire dal 2001, e in modo più marcato dopo la crisi del 2008, tutte le regioni italiane – comprese Lombardia, Piemonte e Veneto – hanno perso terreno.

In particolare, il Pil pro capite delle principali regioni industriali è cresciuto molto meno rispetto a quello di molte regioni tedesche o francesi, mentre il Mezzogiorno è rimasto ancorato a livelli bassi, senza recuperare il divario. Lombardia e Piemonte sono emblematiche: la prima è passata dal 14° al 33° posto tra le regioni dell’Eurozona per Pil pro capite tra il 1995 e il 2023; il Piemonte dal 36° all’84°. Le regioni meridionali, già distanziate nel 1995, hanno visto un ulteriore arretramento. La Campania, ad esempio, è passata dal 125° al 150° posto nello stesso periodo.

Dietro questa divergenza c’è soprattutto la debolezza degli investimenti. Considerati da sempre un indicatore chiave della fiducia delle imprese, gli investimenti in Italia sono rimasti a lungo stagnanti. Dopo la crisi dei mutui subprime e quella del debito sovrano, il rapporto investimenti/Pil è sceso sotto il 20 per cento, segno di un’economia in fase di rallentamento strutturale. Gli investimenti realmente orientati alla trasformazione tecnologica – come quelli in ricerca e sviluppo, macchinari o Ict – sono rimasti contenuti e non allineati ai livelli delle regioni leader in Europa.

La situazione diventa ancora più chiara osservando la classifica del rapporto investimenti/Pil: nel 2023 solo il Piemonte figura nelle prime 20 posizioni europee. Regioni come la Lombardia o il Veneto migliorano marginalmente rispetto al 1995, ma restano lontane dalle migliori performance europee. La Sicilia e la Campania, invece, si collocano stabilmente nella parte bassa della classifica.

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Un altro indicatore preoccupante è il livello salariale. L’arretramento delle regioni in termini di retribuzione media oraria è generalizzato. La Lombardia, ad esempio, è scesa dal 72º al 107º posto tra il 1995 e il 2023; il Piemonte è passato dall’82º al 114º; la Campania dal 127º al 143º. Tutto ciò avviene in un contesto in cui, nel resto d’Europa, i salari sono aumentati, in linea con la produttività. È un segnale evidente della marginalizzazione del lavoro dipendente nella distribuzione del reddito prodotto. Non è solo una questione economica, piuttosto sociale: salari stagnanti significano consumi deboli, investimenti limitati e, soprattutto, crescente insicurezza per le famiglie.

L’Italia presenta anche un’altra anomalia nel modo in cui la spesa pubblica viene distribuita. A differenza di altri paesi europei, dove esiste un forte coordinamento tra livelli di governo, la spesa in Italia è frammentata tra Stato, Regioni ed enti locali, spesso in assenza di una strategia unitaria. Ne risulta una capacità di spesa poco mirata e inefficiente. Il rischio è che, anche quando le risorse ci sono – come con i fondi europei o il Pnrr – non si riesca a incidere sulle cause profonde del sottosviluppo. Il dato è particolarmente evidente nella spesa per beni di merito – come sanità, scuola e ricerca – e negli investimenti in infrastrutture. Lo studio si chiude con un invito esplicito: senza una politica industriale coerente e una governance fiscale efficace, il rischio è quello di cristallizzare la divergenza tra regioni.

Serve una regia nazionale e comunitaria che sappia indirizzare la spesa verso settori strategici, rafforzare le infrastrutture e investire nel capitale umano, ed è necessario che gli strumenti europei – dai fondi di coesione al Green Deal – non si traducano solo in occasioni di spesa, ma in leve di trasformazione economica. A settembre dovrebbe avviarsi l’autonomia per quattro Regioni nazionali e la Lombardia sarebbe la capofila; la Regione ha lavorato da subito per arrivare a degli accordi sulle materie non Lep, anche se ovviamente il capitolo più importante è quello relativo alla sanità, per cui sono già previsti i livelli essenziali di assistenza.

Dopo anni di fallimento rispetto all’autonomia, servirebbe realmente invertire la rotta; non basta rilanciare la crescita: bisogna anche redistribuirla meglio, tra territori e tra classi sociali. In gioco non c’è solo la competitività dell’Italia, ma la coesione stessa dell’Europa.

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