Pnrr, ecco perché all’Italia serve un miracolo




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Non ci voleva, questa nuova grana al Comune di Milano. E ancor meno ci voleva adesso per la città che si porta dietro la fama, purtroppo non sempre avallata da certi fatti di cronaca, di «capitale morale» del Paese. Il Comune di Milano ha avuto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza una barca di soldi: 812 milioni, cui se ne aggiungono 111 dal Fondo Nazionale complementare. Altri denari pubblici. E una parte di quei soldi è destinato alla rigenerazione urbana, progetto lodevole per il quale era stato anche istituito un apposito assessorato alla Rigenerazione Urbana. L’assessore ora però si è dimesso. Giancarlo Tancredi ha annunciato, commosso, la sua difficile decisione al consiglio comunale. Ma non c’erano molti margini per conservare quell’incarico dopo che gli era piovuta sul capo dalla Procura una richiesta di arresto nell’ambito dell’inchiesta sugli affari immobiliari a Milano. E la domanda, legittima, è se il terremoto che ha investito gli amministratori della città potrà avere qualche impatto anche su opere del Pnrr che stavano a quanto pare marciando in linea con i tempi.

Una prova per tutta Europa

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza doveva essere una prova di maturità per la burocrazia italiana, ma ancor di più per una classe dirigente politica perennemente in affanno quando si tratta di utilizzare i fondi europei. E utilizzarli, soprattutto, al meglio. Senza i giochetti e le furbizie delle quali siamo – ahinoi – tristemente noti. Da questo punto di vista c’è da dire che non passa settimana senza la notizia di una piccola truffa o qualche malversazione. Poca roba, certo, rispetto all’enorme volume di denaro che il Pnrr ha messo in moto. Ma che fa capire come il vizietto sia ancora ben lontano dall’essere sconfitto.

Quanto al bilancio della colossale operazione del Next Generation Eu, il piano da 650 miliardi per rilanciare il continente dopo la pandemia del Covid-19 che si avvia a conclusione e su cui la premier Giorgia Meloni ha strigliato i suoi ministri, se qualcuno può vedere il bicchiere mezzo pieno è solo grazie alla débacle degli altri. Per una volta tanto non siamo in fondo. Niente di paragonabile a quanto fatto dalla Francia, che ha completato l’82% delle scadenze. Ma anche dalla Danimarca e dalla Germania (57 e 56% rispettivamente). Tuttavia con il suo 43% di scadenze rispettate l’Italia riesce a difendersi nel confronto di Paesi come la Spagna (30% per il secondo beneficiario dei fondi Next Generation Eu), la Grecia (35%), l’Irlanda (34%) e perfino l’Austria (25%).

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Quando manca ormai meno di un anno al traguardo del 30 giugno 2026, a livello europeo è ancora da completare il 68% degli impegni progettuali e finanziari. Una situazione che ha indotto il Parlamento Europeo, come ricorda il monitoraggio indipendente di Openpolis, a chiedere il differimento di almeno 18 mesi della scadenza di Next Generation Eu. Richiesta che trova la Commissione non favorevole, anche se difficilmente non si potrà trovare un compromesso. Il governo europeo ha già suggerito di dirottare parte dei fondi ancora non impegnati sulle spese per la difesa. Nella consapevolezza che un fallimento sia pure parziale degli obiettivi non potrebbe che ricadere anche sui vertici della Commissione, non in una fase di grande popolarità. Va ricordato che la presidente Ursula Von der Leyen ha dovuto recentemente affrontare una mozione di sfiducia, respinta, per il caso dei vaccini anti Covid-19 acquistati dal gigante farmaceutico Pfizer.

L’ultimo monitoraggio Openpolis rammenta che l’Italia è il Paese che ha presentato il maggior numero di richieste di modifica del proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: cinque. Analogamente a quanto fatto da Belgio, Irlanda e Spagna. Soltanto una richiesta di modifica invece è arrivata da Francia, Estonia, Romania e Ungheria. I dati sull’avanzamento dei Piani nazionali elaborati da Openpolis sugli elementi in possesso della Commissione al 23 giugno scorso dicono che l’Ungheria deve ancora completare tutte le scadenze. Nelle stesse condizioni è soltanto la Svezia.

Il dato complessivo non è rassicurante. Dei 650 miliardi di euro dell’intero piano europeo il 4 giugno scorso restavano ancora da distribuire 335 miliardi, ovvero più della metà dello stanziamento complessivo nonostante fossero già trascorsi i quattro quinti del tempo a disposizione degli Stati membri per l’uso dei fondi.

La ragione? Certamente anche le difficoltà nella predisposizione dei progetti, estremamente frammentati. Quelli italiani sono circa 80 mila ed è chiaro che nel pulviscolo delle misure proposte da moltissime amministrazioni comunali ci sia davvero di tutto. Ed è plausibile che proprio qui vengano registrati i ritardi più consistenti.

Il caso italiano 

L’ultimo rapporto sul Pnrr del Centro Studi di Confindustria ne è la conferma. La spesa certificata al 31 ottobre del 2024 ammontava a 58,6 miliardi, mentre i denari tuttora già incassati raggiungono 122 miliardi, pari al 62,7% dei 194,4 miliardi spettanti all’Italia fra contributi a fondo perduto e prestiti. Sappiamo inoltre che esiste il via libera per il pagamento della settima rata di 18,3 miliardi, cui si dovrebbero aggiungere anche i 12,8 miliardi dell’ottava.

Di quei 58,6 miliardi di spesa materialmente effettuata quasi 43,8, cioè i tre quarti del totale, riguardano 20 misure. Metà di queste hanno raggiunto il 100% della spesa pianificata. E quei 43,8 miliardi rappresentano il 61,2% della cifra che dovrebbe essere spesa e certificata entro il 30 giugno del 2026. Quindi manca ancora un bel po’.

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Va considerato che poco meno di 23 miliardi, ossia oltre metà della somma totale materialmente erogata per questi capitoli, riguarda due sole voci: che non sono opere pubbliche, bensì finanziamenti per incentivi privati. Ben 13,95 miliardi sono andati a finanziare l’ecobonus, mentre 8,86 miliardi sono relativi al credito d’imposta per i beni strumentali concessi alle imprese in coerenza con il piano Industria 4.0.

Indietro la spesa per scuole e asili

Meglio ancora, sempre tenendo fede al rapporto del Centro Studi Confindustria, è andata per i finanziamenti ai progetti per scuole innovative, aule e laboratori scolastici, che con 1,12 miliardi hanno più che raddoppiato la spesa da effettuare entro il 31 ottobre 2024, prevista in mezzo miliardo. La spesa per la riqualificazione dell’edilizia scolastica, che si trova in una situazione assai lontana dall’ottimale, è rimasta invece indietro. Siamo al 63% della pianificazione. E appena al 22,7% di quello che dovrebbe essere impiegato entro la scadenza naturale del 30 giugno 2026 (circa 4,4 miliardi).

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Ancora peggio procede il piano asili nido e scuole dell’infanzia, per cui il Pnrr ha previsto una spesa di 3,2 miliardi. Ebbene, al 31 ottobre del 2024 la somma effettivamente erogata non raggiungeva che 817 milioni.

Il nodo delle opere gestite dagli enti locali

Ma il grosso del problema è quello relativo alla miriade di opere di dimensioni anche grandi, ma soprattutto medie, piccole e piccolissime. E gestite in gran parte dagli enti locali. Si tratta di 122,9 miliardi che dovrebbero essere utilizzati concretamente prima della scadenza del prossimo giugno. Al 31 ottobre erano stati però spesi, ha calcolato il Centro Studi Confindustria, soltanto 14,83 miliardi, vale a dire il 12%. Anche per questo l’impatto previsto sul prodotto interno lordo è andato progressivamente riducendosi. Per il 2024 i dati del Def di aprile di quell’anno stimavano un beneficio dello 0,9%. Poi però ridimensionato ad appena lo 0,1%. E le stime di crescita sono state trasferite interamente sul 2026, quando il Pnrr dovrebbe contribuire alla crescita economica addirittura per 1,6 punti percentuali. L’effetto di un rush finale che avrebbe del miracoloso, considerato come sono andate finora le cose. Anche se per i miracoli non siamo ancora attrezzati. (riproduzione riservata)



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