Opportuno un ripensamento dei criteri di inclusione dei reati presupposto 231


Nel corso del 2025, con l’istituzione di un tavolo tecnico ad hoc, il Ministero della Giustizia ha avviato un importante processo di revisione del DLgs. 231/2001, offrendo l’occasione per riflettere su una disciplina che, nel tempo, ha mostrato un’evoluzione inaspettata e allo stesso tempo limiti crescenti in termini di efficacia, coerenza e applicabilità.

L’Osservatorio nazionale 231 del CNDCEC ha partecipato al dibattito, formulando osservazioni e proposte – confluite nel documento “Riforma del DLgs. 231/2001: osservazioni e proposte” pubblicato nei giorni scorsi – che traggono origine dall’esperienza dei professionisti impegnati quotidianamente nell’assistenza alle imprese.

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Il punto di partenza è chiaro: il sistema, ancorché nato con una duplice finalità repressiva e di prevenzione, si è trasformato in uno strumento troppo spesso percepito come meramente burocratico, caratterizzato da un’estensione disorganica dei reati presupposto, un’applicazione giurisprudenziale disomogenea e un’incertezza cronica sull’efficacia esimente dei modelli organizzativi. In tale contesto, la funzione originaria di stimolo alla legalità si è appannata e il rischio che i modelli vengano percepiti come meri adempimenti formali è sempre più concreto.

Una delle criticità principali riguarda proprio la selezione dei reati presupposto, che nel tempo ha inglobato fattispecie penalistiche poco connesse alla realtà d’impresa, come i reati contro la persona o quelli legati al terrorismo. Pur riconoscendo che anche tali condotte possono derivare da deficit organizzativi, l’Osservatorio 231 del CNDCEC ritiene opportuno un ripensamento dei criteri di inclusione, magari adottando un sistema a livelli che distingua tra reati strutturalmente, settorialmente o genericamente rilevanti.

Altrettanto centrale è la questione dell’applicazione della normativa alle PMI e, soprattutto, alle microimprese: escluderle completamente, come talvolta proposto, rischia di generare zone franche di irresponsabilità, mentre appare più coerente immaginare modelli organizzativi semplificati, tarati sulla dimensione aziendale, il settore di appartenenza e il livello di rischio. È evidente che per strutture di piccole dimensioni, spesso coincidenti con la figura dell’imprenditore, sia difficile distinguere la volontà dell’ente da quella del singolo, ma ciò non giustifica un’esenzione generalizzata.

In parallelo, si avverte la necessità di disciplinare due ambiti rimasti nell’ombra: da un lato, la responsabilità nei gruppi societari, oggi regolata soltanto attraverso interventi di natura interpretativa di dottrina, giurisprudenza e associazioni di categoria; dall’altro, il ruolo dell’Organismo di Vigilanza, che dovrebbe trovare un riconoscimento normativo chiaro in termini di requisiti, funzioni, indipendenza e responsabilità.

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Altro asse portante della proposta dell’Osservatorio è la valorizzazione delle condotte virtuose e riparatorie. In quest’ottica, l’introduzione dell’istituto della “messa alla prova” per gli enti – ad oggi fortemente osteggiata dalla giurisprudenza di legittimità – rappresenterebbe un passaggio innovativo, capace di stimolare comportamenti correttivi e collaborativi già in fase processuale, favorendo una logica deflativa e responsabilizzante. A ciò si affiancherebbe un sistema di “crediti di compliance”, che riconosca meritevolezza alle imprese che investono seriamente in cultura della legalità, formazione, audit e aggiornamento dei modelli, premiandole anche in fase sanzionatoria o nelle procedure di appalto.

Sul piano procedurale, resta aperto il tema della prescrizione. Il sistema attuale, con termini differenziati tra ente e persona fisica, genera incertezza e può essere oggetto di strumentalizzazione difensiva. Tuttavia, la soluzione non risiede in un’estensione indiscriminata dei termini, quanto piuttosto in una rimodulazione che premi la collaborazione attiva e disincentivi condotte dilatorie.

In sintesi, l’approccio proposto dall’Osservatorio del CNDCEC si basa su una visione integrata del sistema 231, che riconosce il ruolo centrale dei professionisti – in primis i commercialisti – nella progettazione e nell’attuazione dei modelli, nella composizione degli OdV e nella consulenza strategica alle imprese. In tale contesto, si è manifestata con crescente intensità l’esigenza di modernizzare la disciplina in modo equilibrato, rafforzando gli strumenti premiali, senza compromettere il principio di legalità e il diritto di difesa.

In tal senso riformare il DLgs. 231/2001 non significa solo colmare lacune o aggiustare meccanismi procedurali, ma prima di tutto restituire coerenza a un impianto che rischia di perdere credibilità. Un sistema efficace deve saper trovare il punto di equilibrio tra punizione, incentivazione e prevenzione con strumenti chiari, proporzionati e applicabili. Se ben calibrata, la riforma potrà finalmente riportare il decreto 231 alla sua vocazione originaria: non solo argine repressivo, ma leva strategica di governance, trasparenza e responsabilità sociale dell’impresa.



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