l’Ue colpisce agricoltura e industria per inseguire l’economia di guerra


La proposta sul bilancio europeo 2028-34 svela quali sono le priorità della Commissione europea in questo frangente storico

Quando ero un giovane pivello che si affacciava al mondo degli studi internazionali, quel mostro sacro che era ed è Fernand Braudel così mi disse una volta, con quella sua aria bonaria che poteva tagliarti le gambe: “Sapelli, mi dica, com’è possibile avere un’industria di Stato in Italia, se non avete uno Stato?”.

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È una frase che mi viene sempre alla mente in forma ricorrente e che mi è ritornata dominante appena ho letto le linee fondanti del nuovo Bilancio europeo, tanto magnificato dalla signora presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che, con i suoi fedelissimi collaboratori, ha trasformato profondamente l’asse costruttivo del bilancio Ue e ha portato a termine la sua idea di rivoluzionarne il costrutto.



Impegna, dal 2028 al 2034, 2.000 miliardi di euro, un 1,26% del Pil, poco più di quanto fatto per il periodo 2021-27 (1,13%). E c’è qualcosa di più importante: il cambiamento profondo di una struttura bilancista che è stata costruita in 40 anni di storia politica e tecnocratica, tra mille sfide economiche. D’ora innanzi i programmi tradizionali dei fondi strutturali (coesione, fondo sociale, ecc.) e la politica agricola – soprattutto la decisiva politica agricola – saranno integrati in “piani nazionali” che “includeranno” queste politiche.

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Definire il bilancio è il dibattito rivelatore dei rapporti di forza che nell’Ue si devono affrontare: ogni sette anni traspaiono veramente in forma plastica i poteri degli Stati e delle filiere delle imprese. Germania e Paesi Bassi tendono a rifiutare aumenti dei conti comunitari che vanno ben oltre l’1% del Pil dell’Ue. E anche questa volta l’Aja ha dichiarato che “il bilancio proposto è molto alto”, mentre le nazioni del Sud tornano sempre a chiedere più attenzione. La Spagna, ad esempio, ha lanciato una proposta all’inizio dell’anno chiedendo di raddoppiare fino al 2% del Pil.



Se esaminiamo i dati, è evidente che il punto di partenza di Bruxelles si avvicina sempre più alle tesi “frugali” che a quelle del “Sud”.

Questa proposta sarà discussa per ben due lunghi anni in seno al Parlamento europeo e al Consiglio, ma la Commissione ha posto ben in vista le priorità che la burocrazia celeste, dominata dalla presidente, ritiene ineludibili. Per la difesa e la sicurezza è prevista una spesa di 131 miliardi, in una voce che comprende anche la politica spaziale: il tutto compreso nel cosiddetto Fondo per la competitività, uno strumento bilancistico che ammonterà a 451 miliardi, perché, oltre alla difesa, conterrà in sé la politica digitale, la “transizione pulita” e la decarbonizzazione dell’industria o della ricerca attraverso il programma Horizon Europe.

Questa cifra del quadro di bilancio totale, vicina ai 2mila miliardi di euro, insieme al fondo per la competitività o all’aumento delle entrate proprie dell’Ue, che arriveranno a 58.000 milioni l’anno, è ciò che porta von der Leyen ad affermare che questo bilancio “sarà il più ambizioso mai proposto”. Ha anche affermato che è un budget per “una nuova era”. L’era in cui si moltiplica per cinque la spesa per la difesa e per un programma “di azione esterna” che ammonta a 200 miliardi, con stanziamenti per l’Ucraina (100 miliardi) e allargamento dell’Ue ai Paesi candidati (43 miliardi di euro).

Ma il cambiamento è concettuale e trasforma completamente i fondamenti dell’azione di bilancio in riferimento ai territori del continente europeo, stravolgendone le filosofie d’intervento che sinora avevano un riferimento – nonostante il funzionalismo imperante – nell’originario pensiero federalista che ispirò la nascita dell’Ue.

Ora tutto muta. Il federalismo non sarà più quello per aree di riferimento economico-strutturale, così tradizionalmente inteso per decine di anni. Per raggiungere l’obiettivo dichiarato di “un bilancio più semplice e flessibile”, la Presidente ha proposto di passare dai circa 500 programmi operativi attuali a 27 piani nazionali. E ciò altro non significa che più potere per le burocrazie celesti di Bruxelles e soprattutto per gli Stati a scapito delle regioni, che già da mesi lanciano segnali d’allarme contro questi piani.

Anche le organizzazioni agricole protestano sottovoce – per ora – perché la politica agricola tradizionale dovrà essere inclusa nel fondo nazionale. “Possiamo far scomparire politiche agricole importanti come gli aiuti per l’inserimento dei giovani nel settore, la modernizzazione delle aziende o gli aiuti agli allevatori e agli agricoltori che si trovano in zone svantaggiate?”, ha dichiarato José Manuel Roche, presidente dell’Unione dei piccoli agricoltori (Upa), in una protesta davanti alla sede della Commissione.

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Il nuovo quadro di bilancio riduce i programmi per semplificare i processi di spesa e dà più potere agli Stati, trasferendo loro il denaro per le politiche definite da Bruxelles.

Le perorazioni di Letta e di Draghi sono rimaste lettera morta: gli interessi nazionali pesano più di quelli europei, dimenticando le politiche dirette ad approfondire il mercato unico e quell’integrazione economica che tutti ritengono necessaria per meglio competere a livello mondiale.

L’agricoltura sarà la più colpita da questa trasformazione del bilancio europeo e le conseguenze politico-sociali di queste scelte saranno devastanti, se si rammenta che cosa sta accadendo nei settori industriali profondamente colpito dalle politiche ormai decennali di attacco ideologico all’industria europea, alle sue imprese, alle sue politiche di trasformazione che hanno visto profondamente mutare il volto delle società europee in questi ultimi decenni.

In fondo il bilancio di cui qui si fa cenno altro non è che – sotto il risuonare dei passi degli eserciti in guerra – un altro auto da fè dell’industria europea o di ciò che ne rimane.

Il ritorno allo statalismo, del resto, è il frutto inevitabile quando l’economia di guerra diviene l’asse prevalente dell’organizzazione sociale.

Ma come si potrà far questo senza più la grande industria europea di un tempo?

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