Oltre gli Stati, l’attacco a Francesca Albanese


Gli attacchi del governo statunitense alla Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, Francesca Albanese, le conseguenti reazioni, e soprattutto i silenzi, dimostrano non solo lo scarso rispetto del diritto internazionale – che pure, finora, aveva avuto una certa importanza, se non nell’evitare, quanto meno nel negare legittimità ai crimini di guerra – ma portano anche alla luce lo strapotere incontenibile delle multinazionali e lo scollamento delle opposizioni.

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Se il segretario di Stato degli Stati Uniti, Marc Rubio, ha posto sanzioni contro Albanese, sostenendo che i suoi siano “sforzi illegittimi e vergognosi di sollecitare un’azione della Corte penale internazionale contro funzionari, aziende e dirigenti statunitensi e israeliani”, è solo perché la Relatrice Onu ha osato sfidare uno dei principali baluardi del sistema tardocapitalista: la multinazionale. “Lo dico sempre: se la Palestina fosse una scena del crimine avrebbe addosso le impronte digitali di tutti noi”, ha detto: “I beni che compriamo, le banche a cui affidiamo i nostri risparmi, le università a cui paghiamo le tasse”. Non è la prima volta che Albanese chiama in causa la connivenza dei governi europei e statunitense nell’apartheid, e ora nel genocidio in Palestina, ma oggi protagoniste sono le aziende private.

Più dei governi sono infatti le imprese a dettare legge. È il privato, più potente dello Stato-nazione – nonostante il rigurgito sovranista –, a determinare i conflitti. Lo diceva, nel suo saggio del 2020 After Nations, lo scrittore britannico, di origine indiana, Rana Dasgupta: sia le democrazie sia i governi autoritari sono schiavi delle corporations, soprattutto di quelle hi-tech. Nella realtà tardocapitalista si possono denunciare i governi, ma non le multinazionali: il privato è sacro e intoccabile. Così, fare i nomi di quelle coinvolte nel genocidio palestinese – come ha fatto Albanese nel suo ultimo report – è il massimo affronto al sistema.

La lista delle aziende coinvolte nel genocidio è lunga. Ci sono quelle che producono materiale bellico, come l’italiana Leonardo e la statunitense Lockheed Martin, e che appaiono scontate, ma ci sono anche Microsoft, Amazon e Alphabet, partner strategici per la gestione dei dati delle forze armate israeliane, o l’azienda logistica danese Moller-Maersk A/S. Anche nella distruzione fisica di Gaza, come nelle demolizioni delle case e delle scuole palestinesi in Cisgiordania – che proseguono indisturbate dal 1948 –,  sono coinvolte aziende costruttrici dei mezzi pesanti, come Caterpillar, Volvo e Hyundai. Infine, dietro la ricostruzione illegale, si celano i progetti di intermediazione immobiliare statunitensi come Keller Williams Realty. Se solo il movimento di boicottaggio Bds (“Boicottare, disinvestire, sanzionare”) fosse più folto e determinato, i danni economici per queste aziende sarebbero incalcolabili.

Davanti alle accuse del governo statunitense verso una cittadina italiana, il governo italiano non risponde, si chiude in un silenzio ingiustificabile. Ora che non c’è l’Iran di mezzo (come nel caso della giornalista Cecilia Sala), ma l’attacco viene dall’alleato atlantico e si deve difendere una funzionaria Onu, il cui mandato è stato riconfermato nonostante le pressioni globali, la premier Meloni non si spreca. Perché? La risposta è semplice, e non riguarda solo la sudditanza nei confronti degli Stati Uniti. Chiama in causa la connivenza del governo italiano nel genocidio a Gaza. Una delle aziende citate nel report di Albanese è infatti la Leonardo, l’azienda di armamenti partecipata dello Stato al 30%, di cui, giusto per dirne una, il ministro della Difesa della Repubblica, Crosetto, è stato senior advisor, incassando milioni di euro – come scrivevano su “Domani”, Giovanni Tizian ed Emiliano Fittipaldi, nel 2022. Inoltre, molte aziende italiane, come Enel, hanno stabilito laboratori di ricerca e sviluppo in Israele, con interessi specifici nell’area.

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Nonostante il silenzio del governo, in Italia c’è stato un moto di solidarietà nei confronti della Relatrice Onu, da Tlon allo street artist Greb, dal mondo della cultura alla Cgil. Pubblicare i frutti del proprio lavoro di ricerca per le Nazioni Unite dovrebbe essere un diritto e un dovere. Del resto – come ha ricordato Enrico Calamai, diplomatico italiano in carica in Argentina durante la dittatura militare – non sempre le pressioni popolari cadono nel vuoto. In un commento sul “manifesto”, ha fatto l’esempio di Adolfo Perez Esquivel, salvato in extremis proprio grazie alle istanze della società civile. L’attivista venne caricato sull’aereo per essere gettato in mare come gli altri desaparecidos, “eppure all’ultimo momento, il pilota ricevette una telefonata e l’aereo girò su se stesso, tornando alla base senza avere dato seguito alla condanna”. Il motivo fu l’entità della mobilitazione internazionale per conferire il Nobel per la Pace a Perez Esquivel, che riuscì a intimorire anche i generali argentini. La proposta è perciò quella di promuovere dal basso la candidatura di Albanese al premio. Lo stesso Nobel proposto da Netanyahu a Trump, secondo una sceneggiatura distopica che va a sommarsi alle altre varie a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi.

Purtroppo le tre proposte di candidatura sono arrivate da tre porzioni diverse – ma simili – della stessa torta: una dall’Alleanza verdi-sinistra, un’altra da Rifondazione comunista e la terza da Potere al popolo. Sommate, le petizioni avrebbero già raggiunto più di centoventimila firme, ma troppo costa alle sinistre trovare un accordo. Nel frattempo, il ministro degli esteri, Tajani, è andato da Trump per discutere dei dazi contro l’Unione europea minacciati dal presidente statunitense; chissà se ci sarà spazio per difendere una concittadina italiana, o se invece prevarrà la sudditanza, non solo verso il governo statunitense, ma soprattutto verso ciò che rappresenta: il potere incontrastato delle corporations.


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