Venture Capital, la svolta dell’Italia: il decreto Economia recluta i fondi pensione


 Aria di forte svolta per il venture capital italiano e le nostre startup: il Decreto Economia”), appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale introduce un incentivo fiscale sull’uso dei fondi pensioni per gli investimenti di questo tipo.

Era ora. Negli ultimi decenni, l’Italia ha vissuto una cronica difficoltà nel connettere il proprio risparmio previdenziale con l’economia dell’innovazione.

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Nonostante un patrimonio gestito da fondi pensione che supera i 225 miliardi di euro, gli investimenti in venture capital sono rimasti marginali, se non del tutto assenti.

Questo disallineamento ha impedito a lungo la creazione di un mercato del capitale di rischio domestico competitivo nelle aree più di frontiera ed innovative, lasciando il settore del venture capital ed a valle le startup italiane con limitate risorse finanziarie o costrette a migrare per crescere. La conseguenza è stata finora una debolezza strutturale nella capacità del Paese di trattenere e valorizzare il proprio talento tecnologico, sempre più cruciale.

Decreto economia, svolta per il venture capital italiano

Ora, però, il contesto sta per cambiare drasticamente. L’approvazione della norma contenuta nel Decreto Legge Economia (“Decreto Economia”), già efficace, introduce un incentivo fiscale capace di produrre effetti di enorme rilevanza: le plusvalenze realizzate dai fondi pensione saranno detassate, a condizione che venga rispettata una condizione aggiuntiva precisa ossia destinare almeno il 10% del 10% già riservato all’economia reale[2] al Venture Capital (ovverosia circa l’1% del totale AUM ), con un meccanismo di crescita progressiva su un triennio, partendo dal 3% di investito nel 2025, al 5%, nel 2026 fino ad arrivare al target del 10% di investito nel 2027.

In pratica, i fondi pensione e casse potranno beneficiare di un regime fiscale speciale di tutto favore solo se una parte dell’allocazione dei loro investimenti in economia reale sarà indirizzata verso fondi di Venture Capital, e quindi indirettamente verso imprese tecnologiche ad alto potenziale innovativo.

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Il legislatore, che già aveva stabilito il principio ad inizio d’anno nella Legge Concorrenza (Legge 16 dicembre 2024, n. 193), è ora intervenuto con il decreto Economia per rimuovere ogni possibile incertezza e chiarito che ai fini del raggiungimento della soglia è rilevante la data del commitment di investimento nel fondo di Venture Capital, che poi potrà investire a valle nelle imprese secondo le tempistiche previste dai relativi regolamenti, ma anche chiarendo che sono validi gli investimenti indiretti in Fondi di Fondi che investano in Venture Capital e non solo quelli diretti in Fondi di Venture Capital.

Portata del decreto Economia per startup e venture

La portata della riforma è doppia. Da un lato, segna un cambio di paradigma nella politica industriale italiana:

  • il venture capital viene riconosciuto come componente essenziale dell’economia reale, alla pari delle infrastrutture o delle PMI tradizionali.
  • Dall’altro lato, si offre al sistema dei fondi pensione — spesso reticente di fronte al rischio percepito del Venture Capital — un incentivo concreto per superare l’inerzia e partecipare alla costruzione di un ecosistema dell’innovazione competitivo.

Ciò peraltro seguendo la logica già dimostrata valida negli Stati Uniti dove a partire dagli anni ‘80 l’infrastruttura invisibile del Venture Capital — sostenuta da scelte strategiche del legislatore e dei fondi pensione — ha giocato un ruolo chiave nel successo della storia dell’innovazione ed economica statunitense.

La crescita del venture capital negli Stati Uniti: l’Italia segue questa lezione con i fondi pensione

Negli anni ’80, negli Stati Uniti il venture capital era ancora un settore di nicchia, con volumi contenuti e attori limitati. I fondi VC americani attivi erano circa 100, gestivano complessivamente circa $3 miliardi con investimenti annui in startup inferiori a $1 miliardo[3].

Appena 20 anni dopo nel 2000 le dimensioni del mercato del Venture Capital erano esplose: i fondi esistenti decuplicati, circa 1000, i capitali in gestione cresciuti di quasi 100 volte a $250 miliardi e più che centuplicati gli investimenti annuali in startup, circa $105 miliardi.

Un ruolo decisivo in tale crescita lo hanno certamente svolto due attori: il legislatore americano e CalPERS, il California Public Employees’ Retirement System (CalPERS), il principale fondo pensione dei dipendenti pubblici statunitense, che dagli anni ’90 ha contribuito in modo sistemico allo sviluppo del Venture Capital (“VC”) come asset class e al finanziamento indiretto di migliaia di startup.

Quanto al primo, due provvedimenti tra il 1978 ed il 1979[4] posero le premesse del successo del settore:

– il Revenue Act del 1978 che abbassò la capital gains tax dal 49% al 28%, rendendo più interessanti gli investimenti ad alto rischio/alto rendimento come il venture capital e soprattutto
– l’ERISA Clarification Act del 1979 che consentì ai fondi pensione (soggetti all’Employee Retirement Income Security Act) di investire in asset non tradizionali, come fondi di private equity e venture capital, chiarendo che erano in linea con la “prudent investor rule“.

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L’effetto fu significativo: da settore di nicchia, il venture capital iniziò timidamente ad entrare nella sfera di interesse dei primi investitori istituzionali, principalmente privati[5], con l’effetto di una progressiva crescita dell’investito nel settore: dal totale di $424M investiti nel 1978, ossia pre-intervento normativo, si passa a $1.46B investiti nel 1980 ed a $4B nel 1987 (solo 8 anni dopo l’approvazione dell’ERISA Clarification)[6].

Il ruolo cruciale dei pensionati americani nel successo della Silicon Valley: il ruolo di CalPERS nel boom del venture capital USA

La miccia, tuttavia, che fece davvero scalare il settore e l’ecosistema dell’innovazione statunitense fu costituito dalla decisione del principale fondo previdenziale statunitense di dipendenti pubblici, CalPERS, di iniziare a investire nel mercato del VC.

Fondato nel 1932, con oltre due milioni di lavoratori californiani come iscritti ed asset negli anni 80 pari a circa $20 miliardi (e che oggi superano i $500 miliardi), CalPERS investiva storicamente il suo patrimonio quasi esclusivamente in titoli di stato, obbligazioni e large-cap, seguendo un approccio conservativo come gran parte degli investitori previdenziali.

Tra il 1990 e il 1992, sollecitato dal cambiamento dello scenario macroeconomico ed in particolare dai bassi rendimenti offerti dal mercato e quindi dall’esigenza di trovare investimenti alternativi più interessanti oltre che dal crescente affermarsi della tecnologia, CalPERS decise di diversificare investendo (in modo indiretto circa $500M e poi via via crescente) nel private equity e nel venture capital, e allocando a quest’ultimo settore una quota che nel tempo è stata tra il 2% ed il 4% del proprio investito annuo, con un picco del 7%.

Del resto, il matching tra i fondi di Venture Capital per definizione alla ricerca di capitali stabili, pazienti e di lungo periodo e con la promessa di rendimenti particolarmente alti, oltre che di impatto sul territorio, e i fondi pensione focalizzati su investimenti di lunga durata, non correlati, con rendimenti interessanti nel lungo periodo e che rispondano ad un’esigenza di diversificazione del portafoglio, è intuitivo. La logica del fondo pensione era chiara: destinare una piccola porzione del portafoglio a investimenti ad alto rischio ma con alto potenziale, compensando le componenti più conservative

La decisione di CalPERS di iniziare ad investire in Venture Capital non fu solo una scelta finanziaria: fu un atto sistemicoche produsse effetti sistemici.

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Un impatto sistemico

Nel giro di un decennio gli investimenti nel venture capital sostenuti da capitali previdenziali pubblici e privati (CalPERS in primis ed a seguire altri fondi previdenziali, CalSTRS, Oregon PERS, Washington State Investment Board, così come i fondi delle principali Università americane[7]) hanno avuto un effetto moltiplicatore dirompente sul mercato VC e l’economia in genere degli Stati Uniti, producendo:

  1. Aumento del numero e della capacità di investimento dei fondi VC: il numero di fondi di Venture Capital presenti sul mercato cresceva di oltre 4 volte e le dimensioni medie dei fondi top-tier passavano dai $50-100 milioni degli anni ’80 ad oltre $1 miliardo dei primi anni 2000
  2. Crescita degli investimenti downstream: tra il 1995 e il 2000 si calcola che gli investimenti annuali di fondi VC in startup crescevano da $6,6 miliardi al picco di $132 miliardi nel 2000[8];
  3. Effetto ecosistemico: l’afflusso di capitale istituzionale e stabile generava fiducia nel modello di investim ento in VC, avviando un ciclo virtuoso che ha reso possibile anche la nascita di un mercato secondario, sia di partecipazioni a valle che di quote di fondi a monte, contribuendo alla maturazione dell’intero settore.

Effetto di crescita che, al di là dei cicli macroeconomici, è rimasto duraturo nel tempo se si considera che l’AUM dei fondi di Venture Capital statunitensi è aumentato da $1B nel 1980 a $231B nel 2008, fino a raggiungere $731B nel 2020, con una quota sottoscritta da parte dei fondi pensione tra il 50 ed il 59% del totale AUM (cfr. schema sotto con la crescita dell’AUM dei fondi VC statunitensi)

La sola CalPERS è stato calcolato ha indirettamente contribuito a finanziare indirettamente oltre 2.000 startup, molte delle quali casi di grande successo diventate public company o acquisite da multinazionali, tra cui Google, Amazon, eBay, PayPal, LinkedIn, Netscape[9]. CalPERS è stata anche tra i primi sottoscrittori di fondi del venture capital americano divenuti leggendari e tuttora di grande successo come Sequoia Capital, Kleiner Perkins Caufield & Byers, Benchmark e Accel Partners.

E non solo.

Uno studio dell’Università di Stanford ha stimato che circa il 43% delle aziende USA nate dopo il 1975 e quotate in borsa sono state finanziate da fondi di venture capital e che il valore di mercato cumulativo di queste aziende nel 2020 superava i $6 trilioni[10].

Ed anche dal punto di vista macroeconomico sono evidenti gli effetti duraturi prodotti: le aziende VC-backed impiegano negli USA oggi oltre 20 milioni di lavoratori (circa il 12% del totale nazionale) ed hanno generato un indotto economico stimato pari a oltre $1.300 miliardi annui di PIL[11]. Dal 1990 al 2020, l’occupazione nelle aziende supportate da fondi VC è cresciuta del 960%, molto più rapidamente rispetto al settore privato in generale (40%).

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In sintesi, CalPERS, mentre perseguiva egregiamente i suoi obiettivi fiduciari, ha anche alimentato la spina dorsale dell’economia innovativa americana, contribuendo a collegare la finanza previdenziale al motore dell’innovazione privata, fungendo da modello esemplare per altri investitori previdenziali pubblici e privati, non solo statunitensi (come il Canada), di fatto contribuendo alla istituzionalizzazione del venture capital come nuova asset class.

Il sostegno al venture capital dei fondi pensione statunitensi ha permesso al settore di crescere, ma soprattutto alle aziende tecnologiche statunitensi di scalare e diventare i champion mondiali che oggi conosciamo, con impatto significativo sul mercato borsistico (con l’affermarsi del Nasdaq) ed industriale (con effetti evidenti anche in ambito militare), e quindi contribuito a plasmare il panorama tecnologico americano (fornendo capitali, visibilità e liquidità al settore) ed anche l’economia statunitense degli anni a venire.

Capitali pazienti, rendimenti potenzialmente generosi

Non sono stati solo gli effetti macroeconomici a sostenere la correttezza della scelta operata da CalPERS: secondo Cambridge Associates, tra il 1995 e il 2015, i fondi VC in cui CalPERS ha investito hanno registrato rendimenti annualizzati tra il 13% e il 15% annuo netto, contro il 7-8% medio dell’S&P 500 nello stesso periodo. Una scelta, quindi, che mentre sosteneva la crescita dell’economia statunitense ha rafforzato la solidità del sistema pensionistico.

Naturalmente, non tutto è stato lineare.

Nonostante si tratti di investimenti in parte decorrelati, rimane cruciale il periodo di investimento (ossia il vintage, l’anno in cui il fondo ha iniziato l’attività di investimento ) che insieme al contesto congiunturale di exit giocano un ruolo fondamentale nel determinare il profilo di rischio e i ritorni attesi per gli investitori (o LPs) così come la scelta del fondo VC target, politica di investimento e team (e perfino dimensioni più contenute) possono costituire un fattore chiave nel determinare il successo dell’investimento

La crisi dot-com del 2000-2001, e più tardi quella finanziaria del 2008, hanno portato alla luce la volatilità del settore – influenzato dalle condizioni economiche generali, dalle politiche dei tassi di interesse e dai cicli di mercato, con trend di lungo termine di crescita ma chiaramente con fasi di volatilità e correzione- e hanno sollevato alcune critiche circa costi di gestione e scarsa trasparenza. In risposta, CalPERS ha introdotto criteri più severi per la selezione dei fondi oggetto di investimento e spinto per una maggiore trasparenza e rendicontazione del settore, continuando a mantenere una quota del proprio portafoglio complessivo (di circa il 2% ma variabile in funzione dei cicli economici) nel Venture Capital.

Il successo dell’ecosistema tecnologico americano non è quindi stato solo frutto di genio imprenditoriale e di università eccellenti, ma anche di scelte macro-finanziarie degli operatori, ed in particolare del ruolo svolto dai fondi pensione, e di politiche pubbliche lungimiranti, capaci di orientare il capitale verso l’innovazione, a vantaggio dell’intera economia statunitense degli anni a venire.

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Un legame sottovalutato

Il paradosso è che pochi, anche tra gli addetti ai lavori, conoscono questo legame: mentre si celebrano gli unicorni di Silicon Valley, raramente si riconosce il ruolo di investitori “silenziosi” come CalPERS ed altri fondi pensione, senza il cui contributo, molte delle più grandi storie dell’innovazione americana non avrebbero mai superato la fase seed. Il venture capital americano, per decollare, aveva bisogno di capitali pazienti, costanti e lungimiranti. CalPERS è stato tra i primi e con maggiore capacità di impatto a capirlo. E lo ha fatto non per ideologia, ma per dovere fiduciario verso i suoi iscritti.

Il risultato è stato che per ironia della sorte, mentre finanziava le cure mediche e le pensioni degli insegnanti californiani, CalPERS e gli altri fondi pensione sostenevano anche l’affermarsi di tutto il settore tecnologico e di aziende come Google, Amazon, Linkedin etc fondate ed utilizzate da figli e nipoti dei propri associati, cruciali per il successo dell’economia americana delle generazioni successive.

Ora la sfida italiana sui venture con i fondi pensione

Se nel dibattito sull’origine della Silicon Valley, spesso si celebrano i founder e le startup, si trascura spesso una parte fondamentale della storia: il ruolo cruciale svolto dall’infrastruttura finanziaria istituzionale ed in particolare dai fondi pensione statunitensi nel permettere ad idee rischiose di trasformarsi in colossi globali.

La nuova normativa appena approvata in Italia costituisce un potentissimo strumento normativo di nudging per stimolare verso il venture capital gli investimenti dei fondi pensione italiani, con effetti sul futuro dell’innovazione e dell’economia italiana dei prossimi decenni potenzialmente rilevantissimi. Il contesto attuale del venture capital e dell’innovazione italiano è, infatti, in un momento non del tutto dissimile da quello vissuto dagli Stati Uniti negli anni ‘80-’90.

Se applicata con coerenza e lungimiranza la nuova normativa potrà diventare una leva strutturale per lo scale-up tecnologico italiano, fornendo le risorse finanziarie per permettere al Venture Capital ed a valle alle imprese tecnologiche e quindi all’industria e all’economia italiana in genere di scalare e competere a livello globale. Ma il successo dipenderà anche dalla reazione dei fondi pensione, chiamati a assumere un ruolo attivo nella trasformazione economica del Paese.

Una sfida non solo per economica, ma generazionale.

Note


[1] GU Serie Generale n.149 del 30-06-2025, art. 18 (immediatamente efficace): Disposizioni urgenti per il finanziamento di attivita’ economiche e imprese, nonche’ interventi di carattere sociale e in materia di infrastrutture, trasporti ed enti territoriali.

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[2] La Legge di Bilancio 2017 aveva già previsto la detassazione delle plusvalenze dei fondi pensione a condizione che almeno il 10% dell’AUM fosse investito in economia reale (Pir, fondi di private equity, private debt, etc.)

[3] Dati NVCA, National Venture Capital Association.

[4] A questi si aggiunsero il Small Business Investment Incentive Act (1980), che semplificò il funzionamento ed i requisiti autorizzatori dei fondi VC, l’ERISA’s “Safe Harbor” Regulation (1980, l’ Economic Recovery Tax Act (1981) che abbassò la tassazione sui capital gain, la Regulation D (1982) e la Tax Reform Act (1986) che tagliò ulteriormente la tassazione sui long-term capital gains.

[5] Si trattava dei primi investitori corporate o family business e dei primi gruppi di angel investors.

[6] Cfr. Gompers, Paul A., and J. Lerner.“The Venture Capital Revolution.” Journal of Economic Perspectives 15, no. 2 (Spring 2001): 145–168.

[7] Ad esempio, il fondo di dotazione dell’Università di Yale (Yale Endowment Fund), gestito dal suo chief investment officer David Swensen dal 1985, è considerato un pioniere nell’allocazione alternatica degli asset con eccellenti rendimenti nel lungo periodo. Quando Swensen assunse la guida a metà degli anni ’80, circa il 65% del portafoglio era investito in azioni statunitensi, il 15% in obbligazioni statunitensi e nulla in private equity e venture capital. Nel 2019, azioni USA, obbligazioni e liquidità rappresentavano meno del 10% dell’allocazione target del fondo.

[8] Dati PitchBook.

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[9] Dati National Venture Capital Association.

[10] Cfr. Gornall & Strebulaev, 2015, Stanford.

[11] Dati NVCA.



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