UE: “sostenibili” gli investimenti in armi. La nuova ESG è solo guerra


D’accordo, riflettiamo sul contesto. “Bisogna anzitutto analizzare il momento storico. Partiamo dall’esempio di Berco, a Castelfranco. Qui si tratta di un ritorno al passato, perché quel sito fino al 1998 apparteneva all’azienda Simmel Difesa, che ha sempre prodotto materiale come esplosivi, bossoli, ogive, produzione nel campo del munizionamento. Dopo la fine della guerra fredda Simmel, in evidente crisi, aveva passato la mano a Faber e Berco, convertendo la produzione in attività civili. A fare la differenza è sempre il mercato, e di questi tempi stupirebbe se non ci fossero riconversioni”.

Non proprio rassicurante, come punto di vista. “Prendo un secondo esempio: nel giro di poco tempo, durante il COVID-19, Israele ha trasformato la produzione di missilistica in ventilatori utilizzati per le terapie intensive, perché aziende di quel tipo non ce n’erano. Anche negli Stati Uniti si sono utilizzate risorse professionali tecnologiche del militare per realizzare test durante la pandemia. Tutto è sempre legato alle scelte politiche. Se a livello europeo si orientano le proposte pubbliche verso il militare, chiaro che arriva una spinta conseguente”.

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Per Berco, considerato il passato, la spinta viene facile. “Tutt’altro. Al di là del parere positivo dei lavoratori o del sindacato, il sito è tuttora in crisi e il personale in CIG. Il dato di fatto è che sono passati diversi mesi e la situazione è quella di sempre; non è detto che ci sia un interesse industriale nell’utilizzare quello stabilimento per il bellico. La scelta dei lavoratori, sostenuta dalla FIM CISL territoriale, dal punto di vista industriale non ha rappresentato una svolta”.

In che senso può mancare l’interesse industriale? “Perché il fenomeno, rispetto all’occupazione, rappresenta solo una minima parte della realtà industriale in Italia. Il rapporto Mediobanca sul settore difesa quantifica il valore aggiunto dell’industria della difesa al 0,30% del PIL. Mediobanca, non una fonte pacifista. Dal 2014 al 2024, senza contare le ulteriori spese previste a livello di piano di riarmo europeo, la spesa militare in Europa è cresciuta del 121% e quella in armamento del 325%; ma se andiamo a vedere quanto sono cresciuti gli ordini, e soprattutto gli occupati, ci si rende conto di un disallineamento completo”.

Qui, a supporto, è utile riportare i dati proposti da Analisi Difesa, magazine online di difesa, industria e tematiche militari. Dal 2021 il costo di quasi tutti i prodotti militari è triplicato, ragion per cui, se oggi le nazioni europee riuscissero a triplicare la quota del bilancio della Difesa e della Funzione Difesa dedicata agli investimenti, potremmo acquistare lo stesso numero di armi. Il prezzo medio dell’esplosivo a uso militare è lievitato del 90%, l’acciaio del 59%, l’alluminio del 50%, i circuiti stampati del 64%, la carpenteria leggera del 100%.

Le motivazioni di questi costi sono legate alla frammentazione del mercato UE, all’assenza di un sistema di acquisizione comune, oltre all’assenza di materie prime e di energia a prezzi convenienti. Per questo il massiccio riarmo dell’Europa, tanto evocato, appare inattuabile e insostenibile.

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“I fatturati di Leonardo, in valore, cresceranno moltissimo ma non dal punto di vista quantitativo; la quantità di acciaio, di alluminio e di prodotto non aumenterà altrettanto. Ecco perché l’occupazione non è direttamente proporzionale all’aumento delle spese militari. Prendiamo il caso della Germania, che sta iniettando centinaia di miliardi in campo militare. Lì abbiamo Rheinmetall, principale hub militare su cui si sta ristrutturando il sistema industriale della difesa in Europa. Un gruppo che, per dire, ha stipulato una joint venture con Leonardo per beneficiare dei 23 miliardi per la produzione di 280 carrarmati e 1.050 veicoli da combattimento. Ecco, in questo momento si parla anche della negoziazione con Volkswagen per rilevare uno dei due stabilimenti automotive in chiusura. Un’operazione importante ma dobbiamo sempre considerare che Volkswagen converte uno stabilimento sui dieci presenti in Germania – e nemmeno il più importante. Parliamo di un 5% di addetti reimpiegati nel settore militare. Un plant, peraltro, che si doveva dismettere, sui 24 totali del settore auto; 44, se si comprendono i veicoli commerciali”.

Parliamo quindi di un fenomeno circoscritto? “In Italia porterà alcune PMI della componentistica a spostarsi dall’auto al militare; soprattutto le aziende in difficoltà dovranno porsi il problema se trovare nuovi clienti nel settore bellico. Però, appunto, bisogna avere anche consapevolezza che in alcuni casi non si tratta di nuova occupazione, ma di sostituzione, che significa assicurare lavoro a chi lo sta perdendo”.

Con il supporto del nuovo ESG di Euronext. “Perfettamente d’accordo sulla questione del linguaggio. Sono socio di Banca Etica, che si è opposta fermamente, ma è stata una voce nel deserto. Alla fine è passata l’idea che anche le spese cosiddette per la difesa possono contribuire alla sostenibilità. Ma non si capisce perché ulteriori 7 miliardi per gli F35, a cosa servono? Bisogna evidenziare tutte le contraddizioni e le incongruenze che giustificano spese sproporzionate, utili solo se ci si prepara a una guerra”.



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