«Le assicurazioni hanno una funzione sistemica in un mondo instabile»


Giovanni Liverani, presidente dell’Ania, conosce a fondo i meccanismi del settore assicurativo.

Nato a Udine, cresciuto a Verona, ingegnere al Politecnico di Milano, una vita da top manager nelle Generali per vent’anni a Trieste e poi in giro per mondo fino a guidare Generali Deutschland, la più grande divisione geografica dopo l’Italia, oggi è a capo dell’associazione delle compagnie italiane in uno dei momenti più densi di cambiamento della storia recente. «Quella che stiamo vivendo – esordisce – è la trasformazione più profonda dal secondo dopoguerra. Guerre, pandemia, crisi economiche, shock demografici: mai come oggi il rischio è diventato sistemico. E serve una risposta adeguata».

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Presidente Liverani, nell’attuale scenario di crisi multiple, che ruolo può giocare l’assicurazione per rafforzare la resilienza del Paese?

«Viviamo in un mondo sempre più instabile, la gestione del rischio è diventata una funzione sistemica. E l’assicurazione è lo strumento per eccellenza. Dobbiamo però diffondere questa consapevolezza. Nel 2024 il settore ha erogato 42 miliardi di euro, di cui 27 miliardi in risarcimenti per danni e 15 miliardi in prestazioni su polizze Vita. Eppure ancora oggi molti cittadini e imprese italiane non percepiscono l’assicurazione come infrastruttura strategica».

Perché il settore assicurativo, nonostante questi numeri, non è ancora riconosciuto a pieno titolo come “strategico”?

«Perché in Italia resta forte un pregiudizio culturale. Siamo il Paese in cui la gente pensa che l’Rc auto sia una tassa, anziché uno scudo che protegge dal rischio di rovina economica ogni volta che ci si mette al volante. Si tende a “autoassicurarsi”, immobilizzando liquidità, invece di attivare coperture assicurative che in quanto tali sono più efficienti. Questo ci espone in modo pericoloso a rischi sistemici. Servono più educazione assicurativa, più informazione e un patto chiaro con lo Stato: non siamo un bancomat, ma uno strumento utile per la tenuta economica e sociale del Paese».

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È questo il senso del “Patto per un’Italia protetta” di cui ha parlato nella sua ultima relazione?

«Esatto. Le compagnie versano già oltre 12 miliardi all’anno in imposte. Ma l’assicurazione non è una cassaforte da cui attingere: è la benzina che serve per far funzionare il motore di protezione e sviluppo che l’assicurazione può generare a vantaggio del sistema socio-economico italiano. Penalizzarla significa bloccare questo motore. Abbiamo bisogno di norme più eque, di incentivi alla protezione, di politiche che ci riconoscano come soggetto di interesse nazionale. Solo così possiamo liberare tutto il nostro potenziale economico e sociale».

Eppure solo il 7% degli immobili è assicurato contro le catastrofi naturali, a fronte di un Paese dove il 94% dei Comuni è esposto a rischio idrogeologico o sismico.

«È un paradosso che dobbiamo affrontare con urgenza. L’Italia è fragile e ogni evento climatico genera danni devastanti, spesso irreparabili. Il governo ha fatto un passo importante nel 2024, rendendo obbligatorie le coperture per le imprese. Resta scoperto il patrimonio immobiliare privato, che è il bene più prezioso degli italiani. Serve un grande piano per la protezione delle abitazioni: incentivi forti, semplificazioni, campagne informative».

Il tasso di adesione alla previdenza integrativa è fermo al 38%. Eppure la perdita del tenore di vita alla pensione può superare il 30%.

«È un’altra grande fragilità del nostro sistema su cui possiamo giocare un ruolo. Chi oggi ha 30 anni vivrà più a lungo ma rischia di farlo in condizioni di maggior fragilità. Bisogna intervenire subito, agendo su più fronti: introdurre il silenzio assenso all’adesione, aumentare la flessibilità nei versamenti, consentire a genitori e nonni di contribuire ai piani pensione dei giovani, estendere gli incentivi fiscali. Serve un orizzonte di medio-lungo termine. La spesa sociale che eviteremmo tra vent’anni è enormemente superiore a qualsiasi agevolazione concessa oggi».

Che ruolo può avere il secondo pilastro assicurativo nel rafforzare il Sistema Sanitario?

«Il Servizio Sanitario Nazionale è una conquista da difendere e, là dove funziona, ci è invidiato in tutto il mondo. Ma oggi, per molte prestazioni, le persone sono costrette a rivolgersi al privato: le famiglie italiane pagano oltre 40 miliardi all’anno di tasca propria per prestazioni sanitarie al di fuori del Ssn. Noi proponiamo un modello integrativo che rafforzi e supporti il pubblico: le assicurazioni possono rimborsare prestazioni sanitarie erogate da strutture pubbliche in regime di libera professione intramuraria. Così si riportano risorse finanziarie, che oggi sfuggono, dentro al sistema e si garantisce accessibilità alle cure senza lasciare sole le famiglie».

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Lei ha parlato più volte dell’urgenza di sviluppare coperture per la non autosufficienza. Ma in Italia siamo quasi a zero. Come si può invertire la tendenza?

«È un tema che riguarda già oggi quattro milioni di anziani, di cui due milioni non sono in grado di camminare. E la curva demografica peggiorerà le cose. I prodotti long-term care a vita intera esistono, sono diffusi all’estero, ma in Italia sono sconosciuti. Dobbiamo introdurre una copertura universale, magari automatica, che sfrutti il principio della mutualità e basata su un solido principio attuariale e demografico: se tutti partecipano, e se lo fanno fin dalle prime fasi del lavoro attivo, i costi restano sostenibili. Attenzione però che la non autosufficienza è anche un problema organizzativo, oltre che finanziario. Le assicurazioni oggi possono offrire assistenza, servizi, strutture. Ma serve una cornice normativa e un quadro incentivante adeguato».

La cultura che va diffusa però non riguarda solo la copertura assicurativa.

«Il primo tema e sempre la prevenzione: assicurarsi non basta, bisogna anche agire per ridurre i rischi alla radice. Il secondo è il ruolo degli investimenti: le compagnie gestiscono circa 1.000 miliardi di euro, quasi la metà del pil, e un quarto di queste risorse è destinato ai titoli di Stato. Siamo un pilastro della finanza pubblica. Ma va chiarito che non possiamo investire ovunque: quei capitali appartengono agli assicurati, non alle compagnie. Detto ciò, molti ambiti – dal debito pubblico alla transizione energetica – sono perfettamente compatibili con i nostri obiettivi di rischio, rendimento e durata».

Lei dice le compagnie non possono essere solo casseforti da cui drenare denaro.

«Per poter operare le imprese d’assicurazione hanno bisogno del capitale necessario a far fronte ai loro impegni con gli assicurati anche in scenari estremi. Iniziative regolatorie o fiscali che indeboliscano la redditività diminuiscono l’attrattività del settore per il capitale dei mercati finanziari. Le assicurazioni versano già oltre 12 miliardi all’anno nelle casse dello Stato. Negli ultimi vent’anni sono stati pagati oneri per oltre 9 miliardi sulle riserve matematiche, un unicum italiano. Aumentare ulteriormente il carico fiscale diretto o indiretto indebolisce la capacità del settore di operare come strumento al servizio di un Paese più sicuro e protetto e quindi più forte e competitivo».

Ultima domanda: il risiko bancario in atto può avere effetti sulla governance delle grandi istituzioni finanziarie italiane. Lei crede che la struttura della public company sia ancora un plus?

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«Le compagnie per operare devono attrarre il capitale necessario al loro funzionamento e questo si fa conquistando la fiducia dei mercati e garantendo una adeguata redditività. Finché questo succede le assicurazioni sono salde sulle loro gambe e possono svolgere il fondamentale ruolo socio-economico per cui sono nate. L’interesse che recentemente si registra da parte del mercato è un fatto positivo. Sono convinto le risposte le debba dare il mercato, e che queste risposte vadano rispettate». —



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