Space Economy: pmi pronte a crescere, il Growth Equity può fare la differenza


Nel cuore produttivo d’Italia, tra capannoni operativi e clean room da 300 metri quadri, si sta giocando una partita industriale che potrebbe ridefinire la posizione del nostro Paese nella filiera spaziale europea. Oltre 500 PMI italiane operano già stabilmente nel settore space, con ricavi stabili, clienti istituzionali, un know-how spesso invidiato a livello continentale.

Ma tutte queste imprese condividono un destino sospeso: troppo grandi per il venture capital, troppo piccole per il private equity tradizionale. E ancora prive di accesso al capitale paziente necessario per affrontare il salto di scala.

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C’è però uno spiraglio, un’iniziativa concreta che si muove sottotraccia. Un solo operatore italiano, in modalità “stealth”, si appresta nei prossimi mesi a fare unveiling di quello che sarà, di fatto, l’unico veicolo di private growth equity interamente dedicato alle PMI spaziali italiane ed europee.

Una scommessa solitaria ma ambiziosa, che conferma una verità troppo spesso elusa dal dibattito pubblico e finanziario: il nostro Paese ha bisogno di un’infrastruttura di investimento adatta a coltivare, far crescere ed eventualmente portare a exit industriali un segmento cruciale dell’economia tecnologica. Quello delle imprese che fanno innovazione reale, componenti hardware, propulsione, sistemi radar, payload, software di bordo, e che oggi più che mai possono ambire a scalare i mercati internazionali.

Il momento è ora: l’Italia deve decidere se essere player o spettatore

Nel 2024, secondo i dati dell’Osservatorio Space Economy del Politecnico di Milano, il fatturato aggregato delle PMI spaziali italiane ha superato diversi miliardi di euro, con un tasso medio di crescita annua del 7,3%. Si tratta di imprese che, nella maggior parte dei casi, hanno superato la fase di start-up, hanno già clienti ESA, ASI, Thales Alenia Space o Leonardo, e si muovono su mercati regolati, altamente tecnici e soggetti a vincoli di sicurezza, compliance e autorizzazioni dual-use.

Nel 2025, il 61% di queste PMI ha dichiarato l’interesse ad avviare operazioni di crescita strutturata, attraverso:

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· internazionalizzazione produttiva o commerciale;

· verticalizzazione della supply chain;

· acquisizione di concorrenti o fornitori specializzati;

· sviluppo di linee di prodotto proprietarie scalabili.

Eppure, mancano gli strumenti finanziari adatti per supportare queste ambizioni. Il venture capital, quando arriva, cerca moltiplicatori veloci, marginalità tech e modelli asset-light. Il private equity tradizionale, invece, si muove con logiche di buyout e controllo, spesso inadatte per aziende che hanno ancora bisogno del proprio team fondatore e non possono sopportare operazioni a leva pesante.

Il growth equity è la risposta, ma in Italia è ancora un fantasma

A livello internazionale, il private growth equity si è affermato come l’asset class intermedia capace di sostenere società già solide, ma non ancora pronte alla Borsa o all’acquisizione strategica.

In Europa, fondi come EQT Growth, Highland Europe o Eurazeo Growth hanno costruito una pipeline di investimenti in aziende deeptech, AI, space, life science e cybersecurity. In Francia, Germania e Paesi Bassi, il modello è già noto, sperimentato, inserito in architetture pubblico-private di ampio respiro.

In Italia? Praticamente assente. E l’unico operatore che ha colto la necessità di uno strumento di questo tipo si è mosso in silenzio, con capitali privati e istituzionali, senza fanfare, ma con la consapevolezza che una filiera di PMI strategiche non si costruisce con le call per startup. Si costruisce con pazienza, capitalizzazione, e un’ottica industriale.

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Un ecosistema frammentato, ma con segnali chiari: il caso Piemonte e Intesa

Tra le poche realtà ad aver capito la posta in gioco, il Piemonte si sta muovendo in modo coerente. La Regione ha attivato tavoli con imprese, distretti e istituti finanziari per colmare il gap dell’investimento in equity. In parallelo, il gruppo Intesa Sanpaolo ha annunciato un piano da 17 miliardi di euro in supporto delle filiere aerospaziali e tecnologiche del piemonte in un quadro nazionale. Si tratta di un’iniziativa bancaria, con focus su credito, leasing, supporto alla transizione digitale e industriale.

Ma proprio questo dato conferma il paradosso: i capitali ci sono, ma sono quasi interamente erogati sotto forma di debito. Il credito non basta più. Serve un’infrastruttura equity, flessibile, partnerale, orientata alla crescita e non al rimborso.

Se il sistema bancario riesce a mobilitare 17 miliardi, quanto più strategico sarebbe avere 500 milioni dedicati al growth equity per PMI spaziali, con ticket da 5 a 20 milioni, minoranza qualificata, orizzonte quinquennale e logiche aggregative di stampo buy and build?

Un nuovo ciclo di exit è possibile (ma solo con capitale paziente)

Le PMI italiane dello spazio non chiedono la luna. Chiedono tempo e capitale per consolidarsi, internazionalizzarsi e, in molti casi, prepararsi a una exit industriale.

Negli ultimi 18 mesi, l’Italia ha visto sei operazioni di M&A in ambito space tech con target sotto i 100 milioni, tutte con valutazioni superiori a 7x Ebitda. In almeno tre casi, il target era una PMI che fino a cinque anni fa non aveva mai ricevuto investimenti di minoranza.

Questo dimostra che un ciclo di exit è già attivo, ma solo per chi ha avuto il coraggio di capitalizzare in tempo. Chi è rimasto sottocapitalizzato — per mancanza di strumenti, advisor o cultura — resta fermo in un limbo che distrugge valore.

Il growth equity non è la panacea, ma è la ricetta giusta per sbloccare valore industriale latente. Non chiede exit da un miliardo. Ma può generare ritorni significativi per investitori, imprenditori e sistema Paese, con valorizzazioni tra i 20 e i 100 milioni su PMI che oggi valgono 7–15.

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Il vantaggio strategico dell’Italia va difeso con strumenti finanziari adeguati

Nel 2025 l’Italia è uno dei pochi Paesi europei ad avere:

· una supply chain completa, dalla componentistica all’integrazione di sistemi;

· una rete di PMI qualificate, con TRL elevati e clienti istituzionali stabili;

· una base manifatturiera ad alta specializzazione;

· un posizionamento strategico nelle principali missioni europee.

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Ma senza capitale equity dedicato, questo vantaggio rischia di svanire. E con esso, la possibilità di costruire campioni nazionali in grado di competere, aggregare, ed esportare innovazione.

Il dato è chiaro: il mercato c’è, la domanda è forte, e il segmento è maturo.

Dalla “stealth mode” all’ecosistema: serve un cambio di paradigma

Il passaggio che serve è culturale. Serve smettere di pensare alle PMI dello spazio come “eccellenze da premiare”, e iniziare a trattarle come asset industriali da far crescere e consolidare. Serve affiancare le logiche del credito a quelle dell’equity. E serve un ecosistema che, come in Francia o Germania, combini strumenti pubblici, capitali privati e policy industriale coerente.

E forse è proprio da questo che bisogna ripartire: dalla pazienza del capitale, e dalla visione di chi sa dove può arrivare una PMI, se solo glielo si permette.



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