Intervista a Marco Taisch, Manufacturing Group del Politecnico, sul calo di competitività del comparto. «Da 19 anni perdiamo punti. Siamo al 25° posto in Europa per innovazione. Il saper fare artigiano non basta»
La celebrazione del mito della manifattura italiana cela un cronico deficit di produttività, che penalizza la competitività sui mercati internazionali. Marco Taisch, Politecnico di Milano, traccia un’analisi in un momento in cui l’industria manifatturiera italiana si trova a un bivio cruciale. Tra sfide globali e l’avanzare delle tecnologie digitali, alle aziende si chiede un cambio di passo.
Secondo i dati Istat, risultano in flessione negli ultimi decenni tutti gli indicatori di produttività, qual è la causa?
L’Italia perde produttività da diciannove anni e la responsabilità in primo luogo è degli imprenditori, per due ragioni. La prima è che l’idea “piccolo è bello” riferito alle imprese non è più vera e non lo è da vent’anni. Se l’azienda è di piccole dimensioni, si fa più fatica a fare investimenti e ad aggiornare le persone che ci lavorano. Secondo: la mancanza di produttività del lavoro deriva dal basso livello di digitalizzazione delle nostre imprese e dalla scarsa sensibilità degli imprenditori nel formare il personale.
Qual è il ruolo delle aggregazioni in questo contesto?
Fenomeni di aggregazione e concentrazione, e quindi realizzare economie di scala, permettono una maggiore e migliore gestione a livello globale dei fenomeni di perturbazione dei mercati. Se un’azienda si rende più grande e strutturata, è anche meno fragile di fronte alle perturbazioni.
L’intelligenza artificiale e le tecnologie digitali come impatteranno i sistemi produttivi?
È importante che si comprenda, come premessa, che l’intelligenza artificiale e le tecnologie digitali non creano disoccupazione e che questo timore, che ancora esiste, non ha senso che si ponga. Paesi come la Germania e la Corea del Sud, che hanno il più alto tasso di utilizzo di robot industriali, hanno sempre avuto uno dei più bassi tassi di disoccupazione. Vero è che l’intelligenza artificiale trasformerà le organizzazioni ma, come accade per tutte le tecnologie, le aziende che sono in grado di sfruttare le opportunità che arrivano dalle innovazioni sono quelle che sopravvivono ai cambiamenti perché riescono a trasformarsi più velocemente. Questo fenomeno quasi di “selezione naturale” vale in tutti i campi, incluse le organizzazioni e i sistemi sociali.
Sempre secondo Istat, nel 2024 il 70% di pmi con meno di 250 addetti si collocava a un livello base di digitalizzazione: quanto questo limite incide sulla competitività?
L’Italia è ancora agli ultimi posti in Europa per digitalizzazione delle imprese: è 25esima su 29 paesi europei nell’ultima classifica del Digital Economy and Society Index, l’indice con cui la Commissione europea valuta il livello di digitalizzazione di cittadini e imprese.
Se non si dotano le persone che lavorano di tecnologie digitali, è chiaro che le imprese sono meno produttive e così finiscono per avere costi più alti e peggiori performance in termini di competitività. Questo significa che altri paesi vinceranno la sfida sui mercati nel medio-lungo periodo e ci supereranno.
La formazione del personale e la digitalizzazione richiedono però investimenti, risorse di cui le aziende non dispongono o manca una visione strategica?
Il Piano nazionale impresa 4.0 le misure previste in termini di incentivi fiscali per la formazione erano sempre quelle meno utilizzate. Questa scelta da parte degli imprenditori evidenzia una scarsa sensibilità su investimenti che riguardano una prospettiva futura. In generale l’imprenditore preferisce comprare una macchina, un telaio o un programma software, ma non spende in formazione ed è un errore. Se non si investe in formazione del personale, si rischia di perdere i propri dipendenti che magari vanno altrove dove possono trovare occasioni di miglioramento personale. Se si formano le persone, restano perché l’azienda diventa attrattiva.
A questo proposito, i giovani oggi cosa cercano in un’azienda, oltre allo stipendio?
Negli ultimi otto anni, l’Italia ha perso 350mila giovani tra i diciotto e i venticinque anni. Scelgono di andare all’estero certamente per stipendi più alti, ma soprattutto per carriere più interessanti e per quella garanzia di formazione continua che non sempre le nostre imprese possono garantire. Oggi i ragazzi, quando guardano a un’azienda, mettono al primo posto le prospettive di crescita personale e le possibilità di apprendimento in itinere e non lo stipendio. C’è la consapevolezza che le competenze diventino facilmente e rapidamente obsolete e che quindi devono essere mantenute aggiornate in un contesto dinamico. Se un’azienda non offre un piano di formazione in questa direzione, i giovani non la scelgono.
Difficile che un’azienda intercetti i desideri delle nuove generazioni se chi è al comando è molto lontano da loro da un punto di vista anagrafico oppure è solo un pregiudizio?
L’età media dell’amministratore delegato, spesso anche proprietario, spiega sia la non propensione al rischio e la scarsa propensione all’investimento sul medio e lungo periodo, se non ha eredi per la sua azienda. Questo porta a non investire in formazione, in macchinari e quindi a non avere produttività. Una seconda ricaduta è l’ignoranza, nel senso etimologico del termine, sulle tecnologie digitali. L’imprenditore anziano spesso non capisce a cosa possano servire strumenti come il cloud, l’internet delle cose o l’intelligenza artificiale e quindi non è incuriosito, non studia e non ha sensibilità verso queste trasformazioni. Il boom economico degli anni Sessanta, Settanta e anche Ottanta era dovuto al fatto che l’imprenditore era il miglior esperto della sua azienda.
Oggi se l’imprenditore, a settant’anni, è ancora il migliore nel suo campo in quella organizzazione, significa che quell’azienda ha un problema, perché non sta crescendo chi può sostituirlo. Non sta alimentando un futuro.
In Lombardia, e più in generale in Italia, c’è una forte tradizione manifatturiera basata sul “saper fare con le mani”, sull’artigianalità, sulla capacità di realizzare pezzi unici e su misura: è questa la strada per la competitività dei nostri settori di eccellenza?
Le lavorazioni a telaio o i mobili di design in massello di alta qualità, quel saper fare che confina con l’arte, è una specificità che caratterizza certamente la produttività italiana, ma non è sufficiente. Questa capacità premia alcuni, pochi, ma non risponde alle necessità dei grandi numeri e non salva il settore manifatturiero nel suo complesso. Valorizzando il “su misura” e il prodotto artistico si raggiunge un mercato di nicchia, ma non si dà risposta a quel 22% del prodotto interno lordo del Paese che è sostenuto dalle imprese manifatturiere nel loro insieme, né si dà lavoro ai dieci milioni di abitanti della Lombardia.
Per pochi artigiani occupati in settori di eccellenza, si rischiano molti disoccupati che le aziende senza quelle specifiche competenze di artigianalità non riusciranno più a impiegare. Dobbiamo fare i conti con il potere d’acquisto medio nel mondo che sta aumentando e segmentare il mercato, privilegiando la fascia alta per i prodotti esclusivi, ma senza escludere tutto il resto dei mercati potenziali.
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