Gli Usa pagano le crociate di Trump: se unita, l’Europa può approfittarne


L’ennesima minaccia di Donald Trump – subito ritrattata, almeno fino al 9 luglio – contro i suoi stessi alleati colpisce questa volta l’Unione europea, ritenuta colpevole di non cedere prontamente alle decisioni dell’amministrazione americana di riequilibrare gli scambi fra le due sponde dell’Atlantico. In realtà, gli squilibri ci sono, si sono accumulati in due decenni, dal tracollo del 2008 a oggi, quando proprio la crisi interna degli Stati Uniti si era sparsa nell’intero mondo, che nel frattempo si era globalizzato come mai prima.

Per sostenere la domanda interna, infatti, l’amministrazione federale negli ultimi anni Novanta aveva spinto i risparmiatori a investire a tassi bassissimi in immobili, ma dopo dieci anni, all’atto di restituzione di questi prestiti, seguirono tali difficoltà da indurre le banche locali al fallimento, fino al default del più grande istituto di credito – Lehman Brothers – che mai avrebbe dovuto crollare.

Ne seguì una duplice reazione: molte delle economie locali negli Stati Uniti iniziarono un lungo declino, con un impoverimento, che è divenuto il vero bacino di protesta sfociato nel trumpismo, e per altro gli investimenti si direzionarono verso le emergenti imprese del digitale, che pure nella loro fase esplosiva sono diventate sostenitrici della politica revanscista di Trump.

Dopo il 2008 l’Europa entra in una fase di stagnazione, basata sul ritorno a vecchi nazionalismi, che interrompono la lunga fase di crescita comune iniziata alla metà degli anni Novanta con la creazione dell’euro e l’ampliamento a Est. D’altra parte la Cina dal 1995, quando entra nel World Trade Agreement, cresce continuamente, dapprima offrendo salari bassi a produzioni che dal resto del mondo si spostavano nel Celeste Impero tinteggiato di rosso, ma che poi ha sempre più investito in tecnologia e scienza, fino a detenere oggi circa metà dei 3,5 milioni di brevetti emessi a livello mondiale.

In questo quadro emerge chiaramente che oggi gli Stati Uniti sono dominanti nei settori del digitale con quel pugno di grandissime imprese che controllano in termini monopolistici il mondo della web economy – da Google ad Amazon – ma dispongono di un settore manifatturiero molto fragile, nel quale – come ha dimostrato Apple, rifiutando di tornare a produrre in patria nonostante le pressioni presidenziali – non vi sono più competenze e condizioni per produzioni complesse.

Per rispondere proprio a un elettorato sempre più impoverito, in un Paese sempre più diviso, Trump ha avviato la sua crociata contro la Cina, ma con ben poco successo, dato che le sue stesse imprese più innovative importano dalla Cina tutta la componentistica elettronica, di cui certamente non possono fare a meno. Si rivolge quindi contro Canada e Messico, ma lì sono i settori più tradizionali che hanno bisogno di componenti che arrivano da Nord e di manodopera che giunge da Sud. E allora l’azione presidenziale si rivolge contro l’Europa e, nel contempo, contro quelle componenti della società americana che sono più aperte e indipendenti, quindi le grandi università che vengono considerate nemiche.

Il furibondo attacco contro Columbia e Harvard colpisce così i luoghi simbolo di quelle élites, contro cui si scagliano oggi le vaste fasce della popolazione impoverite, in un Paese in cui il 50 per cento della popolazione oggi detiene solo l’0,8 per cento della ricchezza nazionale, mentre crescono gli ultra-milionari. La foga populista colpisce del resto le università perché queste sono le porte d’ingresso di quell’immigrazione intellettuale, che porta in questa “America per pochi” ricercatori, scienziati, tecnologi da tutto il mondo, quindi privilegiati e avversari agli occhi della nuova destra americana.

Per contro, proprio da quelle università passa la vera capacità di innovazione degli Stati Uniti, che si giovano del fatto di attirare tramite quegli atenei il fior fiore dei ricercatori da tutto il mondo, che incassano così gli investimenti che quei Paesi – a partire dall’Italia – hanno realizzato per formare giovani promesse, che poi se ne vanno negli States.

Con l’incertezza generata dalle decisioni di questa amministrazione americana crescono certamente le opportunità per i guadagni speculativi, da cui lo stesso Trump viene, ma si affossano le possibilità di investimenti di lungo periodo in innovazione industriale, come ad esempio nel settore farmaceutico, di cui la stessa Columbia University è uno dei poli di riferimento. Da qui la convinzione, espressa ormai da molti osservatori, anche premi Nobel, che la politica trumpiana, prima ancora che alla Cina oppure alla stessa Europa, farà danni profondi e forse irreversibili alla stessa economia americana.

D’altra parte, proprio la via trumpiana alla destrutturazione del sistema innovativo americano pone l’Europa di fronte a scelte cruciali e a lungo rinviate. Si aprono opportunità se l’Europa decide di muoversi unitariamente, valorizzando il proprio patrimonio scientifico ed educativo, favorendo la creazione di strutture comuni che possano in tempo breve consegnarci piattaforme alternative a quelle dominate dalle imprese americane e possano, ad esempio, garantire una difesa con una rete di satelliti autonomi da quelli di proprietà di Elon Musk, al quale corriamo il rischio di affidare la nostra difesa aerea.

Grandi spazi, ma agendo in modo unitario, non solo assommando scelte nazionali, ma andando oltre come venne realizzato negli anni in cui proprio l’Unione europea cresceva più di tutti proprio perché insieme si esprimeva una capacità di innovazione e sviluppo senza confronti. Questa prospettiva è cruciale per questa nostra industria europea, ma in particolare per le piccole e medie imprese del Nord Est d’Italia, che producono beni di alta specializzazione da vendere in mercati aperti. L’Europa deve unitamente lavorare per aprire nuovi mercati, ma anche per garantire quelle infrastrutture digitali, oggi necessarie, sfuggendo al monopolio statunitense o almeno limitandolo, e nel contempo investire in misura massicciamente crescente in ricerca, istruzione e innovazione, per poter giocare un ruolo positivo a livello globale e quindi anche per trattare con gli stessi Stati Uniti in modo adeguato e utile per l’intero mondo. —



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