I doveri dei soggetti coinvolti
L’art. 2, comma 1, del d. lgs. del 13 settembre 2024, n. 136 è intervenuto sulla disciplina degli assetti adeguati dettata dall’art. 3 del codice della crisi e dell’insolvenza (CCII), modificando il primo periodo del comma 4 e precisando che i segnali elencati nella disposizione in esame agevolano la previsione della crisi “anche prima dell’emersione della crisi o dell’insolvenza”.
Secondo la relazione illustrativa si tratta di un intervento volto a chiarire che i segnali elencati dalla norma, frutto del recepimento dell’art. 3 della direttiva 2019/1023 operato dall’art. 2, comma 1, del d. lgs. 17 giugno 2022, n. 83, “servono ad agevolare, anche prima dell’emersione della crisi o dell’insolvenza, la «previsione» di cui al comma 3) e perciò non sono segnali di allarme per una situazione già compromessa, ma elementi che forniscono indicazioni in chiave prospettica e preventiva. Il che spiega anche le soglie particolarmente basse dell’articolo 25-novies e il fatto che nel comma 3 di quella disposizione l’invito alla presentazione dell’istanza di accesso alla composizione negoziata è formulato soltanto «se ne ricorrono i presupposti». Si ribadisce e si precisa così l’intento del legislatore delegato in sede di attuazione della direttiva, finalizzato a fornire all’imprenditore strumenti di monitoraggio della propria attività non solo tramite l’adozione di misure idonee di rilevazione della crisi già in atto ma anche con l’individuazione di segnali che, se considerati e valutati tempestivamente, consentono di evitare la situazione di difficoltà. In definitiva, l’imprenditore che si muove secondo le indicazioni fornite, agendo costantemente in via preventiva, da un lato evita la crisi e dall’altro, se non vi riesce, ha comunque una maggiore possibilità di perseguire con successo il proprio risanamento.”
In altri termini, gli indicatori del comma 4 dovrebbero servire sia a prevedere la crisi potenziale, onde prevenirla, sia ad agevolare l’emersione della crisi già in atto, onde assicurare un intervento tempestivo che ne scongiuri la degenerazione in insolvenza.
Senonché, come evidenziato in dottrina, la precisazione non apporta alcuna modifica sostanziale della disciplina previgente ma accentua il contrasto tra la funzione di questi segnali, diretti appunto alla previsione anticipata della crisi, ed il fatto che alcune almeno delle situazioni descritte nelle lettere da a) a d) del comma 4 (retribuzioni non pagate, insoluti verso i fornitori, esposizioni verso banche e altri intermediari finanziari, ecc.) per l’entità dei debiti considerati indicano situazioni di vera e propria insolvenza in atto, mentre gli indicatori che fondano l’obbligo di segnalazione dei creditori pubblici qualificati, a mente del menzionato art. 25novies CCII, non toccato dalla riforma, appaiono talmente bassi da risultare, nella maggior parte dei casi, irrilevanti (Luciano Panzani, Lo schema di decreto correttivo del codice della crisi. Prime considerazioni, in www.dirittodellacrisi.it, 17 luglio 2024, 21-22).
L’art. 2, comma 2, del correttivo modifica anche l’art. 4, primo comma, CCII, estendendo i doveri di buona fede e correttezza nelle trattative e nei procedimenti di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, fino a ieri dettati con riferimento esclusivo al debitore e ai creditori, a ogni altro soggetto interessato.
Ai sensi del novellato comma 4, inoltre, i soggetti interessati alla regolazione della crisi e dell’insolvenza sono tenuti, al pari dei creditori, a collaborare lealmente con il debitore, con l’esperto nella composizione negoziata e con gli organi nominati dall’autorità giudiziaria o amministrativa, nonché a rispettare l’obbligo di riservatezza sulla situazione del debitore, le iniziative da questi assunte e le informazioni acquisite.
Si tratta di un ampliamento che, stante la collocazione della norma ed il suo riferirsi al debitore (e non, specificamente, all’imprenditore) ha un ambito di applicazione che va oltre quello della crisi d’impresa. In relazione a quest’ultima, peraltro, il suo contenuto risultava già anticipato, nell’ambito della composizione negoziata, dal comma 4 dell’art. 16, non modificato dal correttivo, il quale pone in capo all’imprenditore un obbligo di trasparenza non solo in favore dell’esperto e dei creditori ma, espressamente, di tutti gli altri soggetti interessati. Coerentemente, il riferimento a “tutte le parti coinvolte nelle trattative”, contenuto nell’invariato comma 6 dell’art. 16 allorché sancisce il dovere di collaborare lealmente e in modo sollecito con l’imprenditore e l’esperto, è da intendere come riferito non solo ai creditori ma a tutti i soggetti interessati alle operazioni di risanamento, essi pure tenuti, in attuazione del dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., a posporre i loro particolari interessi al generale obiettivo di risanamento che anima la procedura (cfr. Ilaria Pagni, Massimo Fabiani, La transizione dal codice della crisi alla composizione negoziata (e viceversa), in www.ildirittodellacrisi.it, 2 novembre 2021, 30-31; Massimo Fabiani, Il valore della solidarietà nell’approccio e nella gestione delle crisi d’impresa, Il fallimento, 2022, 1, 5ss.; Renato Rordorf, Interferenze tra diritto della crisi e dell’insolvenza e diritto dei contratti, in www.dirittodellacrisi.it, 28 gennaio 2022, 3-4; Vittorio Minervini, Composizione negoziata, norme unionali e (nuovo) codice della crisi, in www.dirittodellacrisi.it, 30 marzo 2022, 20).
L’ampliamento del novero dei destinatari dei doveri anzidetti va di pari passo con quello dei possibili contraenti coinvolti nelle operazioni di risanamento nel corso o all’esito della procedura di composizione negoziata, ai sensi del novellato art. 23. In particolare, il primo comma della disposizione da ultimo citata oggi prevede espressamente che il contratto di cui alla lett. a), riduttivo degli interessi sui debiti tributari alla misura legale, ove in grado di assicurare la continuità aziendale per almeno 2 anni, possa essere stipulato non solo con uno o più creditori ma anche con una o più parti che, sebbene non creditrici, siano interessate alle operazioni di risanamento. Analogamente, ai sensi della lett. c), le altre parti interessate alle operazioni di risanamento oggi possono, al pari dei creditori, aderire all’accordo produttivo degli effetti del piano attestato (ovvero esenzione da revocatoria e da responsabilità penale per bancarotta). La novella risponde, in tal modo, ai dubbi avanzati dalla dottrina rispetto alla formulazione previgente, ritenuta incongrua nella misura in cui escludeva soggetti non creditori, come fornitori, clienti, investitori e altre società del gruppo, dalla possibilità di aderire ai citati accordi (così Vittorio Zanichelli, Gli esiti possibili della composizione negoziata, in www.dirittodellacrisi.it, 26 ottobre 2021, 6-7. Cfr. anche Luciano Panzani, Gli esiti possibili delle trattative e gli effetti in caso di insuccesso, in Fallimento, 2021, 12, 1594; Andrea Illuminati, sub art. 23, in Fabrizio di Marzio (a cura di), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Giuffré, Milano, 2022, 91).
Tra i soggetti interessati, la Relazione illustrativa menziona i soci, i terzi contraenti, gli investitori, ma anche le rappresentanze sindacali. Parimenti, secondo la dottrina, possono farsi rientrare nel novero degli interessati gli acquirenti o affittuari dei beni del debitore ma anche gli offerenti che non si siano resi aggiudicatari, i titolari di diritti reali o restitutori, i terzi garanti e i coobbligati del debitore e le parti correlate (Luciano Panzani, Lo schema di decreto correttivo del codice della crisi. Prime considerazioni, cit., 22).
Anche i doveri del curatore nella liquidazione giudiziale sono stati oggetto di qualche precisazione.
L’art. 29, comma 2, del correttivo ha emendato l’art. 126CCII stabilendo che il professionista, al momento dell’accettazione dell’incarico, deve verificare la disponibilità di tempo e di risorse professionali e organizzative adeguate al tempestivo svolgimento di tutti i compiti connessi all’espletamento della funzione, dandone atto nell’accettazione. Si noti che anche nel vigore della pregressa disciplina si riteneva implicita, nell’atto di accettazione, la dichiarazione di scienza in ordine alla sussistenza delle capacità organizzative e professionali adeguate (Alessandro Farolfi, sub art. 126, in Fabrizio di Marzio (a cura di), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Giuffré, Milano, 2022, 595). Oggi, però, la mancata attestazione espressa in tal senso diventa causa di revoca immediata dall’incarico al pari della mancata tempestiva accettazione nel termine di due giorni dalla comunicazione. E comunque si presta a costituire elemento di valutazione delle eventuali responsabilità del curatore.
Nell’ambito della disciplina della responsabilità di quest’ultimo, contenuta nell’art. 136CCII, l’art. 29, comma 4, del d. lgs. 136/24 ha corretto l’erroneo riferimento del comma 4 all’art. 233, comma 2 (concernente l’obbligo di convocazione dell’assemblea alla chiusura della liquidazione giudiziale delle società di capitali), con quello all’art. 234, riferendosi la norma all’obbligo di rendere il conto della gestione al termine dei giudizi e delle altre operazioni che non impediscono la chiusura della procedura di liquidazione. Lettura, questa, comunque mai posta in discussione e, del resto, esplicitata dalla relazione illustrativa al d. lgs. 14/2019.
Il correttivo non ha inciso sull’art. 136, comma 1, nella parte in cui assoggetta il curatore all’adempimento diligente dei doveri derivanti non solo dalla legge ma anche dal programma di liquidazione. Ha, però, apportato significative modifiche alla disciplina concernente quest’ultimo.
In particolare, l’art. 213, comma 1, per come riscritto dall’art. 35, comma 1, del d. lgs. 136/24, precisa oggi che nel termine di 60 giorni dalla redazione dell’inventario e, in ogni caso, di non oltre 150 giorni dalla sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, il programma di liquidazione deve essere trasmesso al giudice delegato e non più al comitato dei creditori, atteso che, a mente del comma 7 della stessa disposizione, spetta proprio al giudice delegato autorizzarne la trasmissione al comitato ai fini dell’approvazione. La modifica riconduce alla piena responsabilità del curatore il rispetto dei detti termini, giustamente se si considera la gravità della conseguenza prevista per il mancato rispetto del termine di 150 giorni senza giustificato motivo, che resta la revoca dell’incarico. Ma appare ovvio che, nella formulazione precedente, tra i giustificati motivi idonei ad escludere la revoca non avrebbe potuto non farsi rientrare anche il mancato rispetto del termine di trasmissione al comitato dei creditori causato dalla tardiva autorizzazione del giudice.
All’art. 213, comma 5, si ribadisce, poi, che il curatore deve indicare nel programma la data di inizio delle operazioni di liquidazione e il termine del suo presumibile completamento. In ogni caso, l’esperimento del primo incanto deve intervenire entro otto mesi dall’apertura della procedura di liquidazione, salvo differimento disposto dal giudice delegato con decreto motivato. Al dichiarato fine di garantire la celerità della procedura, l’art. 35, comma 1, lett. c), del correttivo, aggiunge però che il mancato rispetto di tali termini senza giustificato motivo è causa di revoca del curatore.
Il comma 5 dell’art. 213 non reca più, invece, il riferimento al termine massimo di durata della procedura di liquidazione, spostato al nuovo comma 8 ma mantenuto in cinque anni dal deposito della sentenza di apertura della procedura, salvo differimento del giudice delegato nei casi di particolare complessità o difficoltà delle vendite. Per tale evenienza, peraltro, non è più previsto il limite massimo di sette anni. Inoltre, il mancato rispetto del termine finale non costituisce più giusta causa di revoca del curatore. L’opzione è condivisibile nella misura in cui, come spiega la Relazione di accompagnamento, la durata delle attività di liquidazione può essere influenzata da molteplici cause indipendenti dalla volontà del curatore e la revoca di quest’ultimo può, in tali circostanze, costituire un ulteriore ragione di ritardo piuttosto che un rimedio all’irragionevole durata della procedura.
Dubbi continua a sollevare, invece, il comma 9 dell’art. 213, che, nella sua nuova formulazione, prevede che, nell’eventualità siano stati rispettati il termine iniziale di otto mesi o quello eventualmente differito previsti dal comma 5 per l’inizio delle operazioni di vendita, il tempo necessario per il completamento della liquidazione non rileva ai fini del calcolo dell’indennità ex legge Pinto. La ragione della modifica pare quella di un ampliamento dell’ambito di applicazione della norma: poiché la precedente formulazione del comma 9 richiamava anche il rispetto del termine di completamento delle operazioni di liquidazione, essa, di fatto, poteva applicarsi solo ove i termini iniziale e finale di liquidazione fossero stati prorogati dal giudice delegato. Solo in questi casi, infatti, l’attività liquidatoria avrebbe potuto protrarsi oltre il termine di 6 anni contemplato dall’art. 2, comma 2bis, della legge Pinto.
Riferendosi ai soli termini iniziali, però, la nuova disposizione pone non poche perplessità. La relazione di accompagnamento, dal canto suo, spiega che la modifica si è resa necessaria onde “eliminare dubbi interpretativi sorti sui termini rilevanti ai fini della non applicabilità delle disposizioni della c.d. legge Pinto”. Dunque, “l’applicabilità della legge Pinto è esclusa quando il curatore ha rispettato i termini indicati nel programma ai sensi del comma 5, siano essi originari o differiti dal giudice delegato”. Ma poiché il comma 9 richiama, in realtà i soli termini di cui al secondo periodo del comma 5, ovvero quelli di inizio delle operazioni, dovrebbe conseguirne che il “tempo necessario al completamento della liquidazione” da non computare ai fini della legge Pinto è tutta l’attività successiva al primo esperimento di vendita tempestivamente posto in essere. É evidente che, in tal modo, la disposizione palesemente ignora che condotte dilatorie o, comunque, negligenti possono essere attuate anche dopo un inizio tempestivo della liquidazione. E così intesa, tra l’altro, essa rischia di affievolire la portata acceleratoria di ulteriori disposizioni contemplate nel CCII, quali l’obbligo di eseguire un esperimento di vendita dei beni immobili per il primo anno e due per ciascun anno successivo al primo, di cui all’art. 216, comma 2, modificato dall’art. 36, comma 2, del correttivo, o la presunzione di manifesta non convenienza della liquidazione dopo sei esperimenti di vendita andati deserti, a mente dello stesso art. 213, comma 2. D’altro canto, pare fuor di dubbio che la mancata osservanza di tali disposizioni possa costituire fonte di responsabilità del curatore a mente del già citato art. 136CCII.
È, poi, comunque difficile coordinare l’art. 213, comma 9, CCII con l’art. 2, comma 2bis, e con l’art. 2bis, comma 1, della l. 89/2001, i quali fissano in 6 anni il termine di durata massima della procedura concorsuale e quantificano in riferimento a ciascun anno ulteriore l’importo dell’indennizzo dovuto, senza distinguere tra attività liquidatoria o di altro tipo.
Anche a voler ritenere, come sembra volere il legislatore, che la nuova disposizione imponga una nuova lettura dell’art. 2, comma 2bis, della legge Pinto, nel senso di sottrarre dal computo dei 6 anni il tempo necessario all’espletamento dell’attività liquidatoria tempestivamente iniziata, tale opzione potrebbe essere condivisa solo ove le operazioni di liquidazione fossero state espletate con tempestività e diligenza, non solo all’inizio, ma per tutta la loro durata. E, in ogni caso, parrebbe difficile da giustificare alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza sul tema, propensa a ritenere il danno non patrimoniale scaturente dal mero fatto del superamento dei termini di cui alla disposizione da ultimo citata e, per l’effetto, esonerando il ricorrente dall’onere di provare gli elementi costitutivi dell’illecito e, in primis, la colpa (cfr. Cass., Sez. 1, 13 aprile 2006, n. 8712, in Giustizia civile, Massimario, 2006, 4). Laddove, poi, il ritardo sia effettivamente imputabile agli organi della procedura (impregiudicata la questione su chi sia onerato a provare tale negligenza, stante la natura indennitaria del rimedio), non pare possa bastare l’art. 213, comma 9, a giustificare l’esclusione dell’indennità per irragionevole durata che, intesa in tali termini, avrebbe ben poche speranze di reggere al cospetto della giurisprudenza CEDU.
A tale ultimo proposito, vale la pena menzionare anche le modifiche apportate dall’art. 38, comma 3, del correttivo all’art. 236CCII, che è stato integrato onde chiarire che gli effetti della liquidazione giudiziale cessano con la chiusura, eccezion fatta per quanto previsto dall’art. 234 in materia di prosecuzione dei giudizi e procedimenti pendenti. Quest’ultima disposizione, a sua volta, è stata ampliata nel suo ambito di applicazione dall’art. 38, comma 1, del correttivo che ha, tra l’altro, esteso la possibilità di chiusura anticipata anche ai casi di insussistenza di attivo, a mente dell’art. 233, comma 1, lett. d), CCII (ma in tal senso, già nella vigenza dell’art. 118, comma 2, l. fall., cfr. Trib. Forlì, 3 febbraio 2016, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 14358 – pubb. 08/03/2016. Anche l’estensione della chiusura anticipata in presenza di crediti nei confronti di altre procedure per i quali si è in attesa del riparto è esito cui si era già pervenuti per via interpretativa: sia consentito rinviare, in proposito, a Giovanna Bilò, La chiusura del fallimento per ripartizione finale dell’attivo dopo il decreto-legge 28.06.2015, n. 83, convertito in legge 06.08.2015, n. 132, in www.osservatorio-oci.org, maggio 2016, p. 9, nt. 32).
Per parte della dottrina, tali modifiche evidenziano ancor più la natura del tutto particolare del provvedimento di chiusura, che non ha realmente carattere conclusivo e rappresenta soprattutto uno strumento per evitare che si verifichino gli effetti propri della violazione del termine di ragionevole durata del procedimento (Luciano Panzani, Lo schema di decreto correttivo del codice della crisi. Prime considerazioni, cit., 70). Conclusione probabilmente da condividere ma che nulla sembra togliere all’idoneità della norma a limitare l’applicazione della legge Pinto a livello interno. Sotto il versante della giurisprudenza CEDU, invece, l’istituto della “chiusura anticipata” non risulta essere stato ancora esaminato. Ma, a fronte di una giurisprudenza propensa a sanzionare l’eccessiva durata della procedura in quanto tale (si veda la sentenza resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso De Blasi c. Italia, n° 1595/02, §§ 28-33, 05/10/2006, in www.hudoc.echr.coe.int), l’istituto della chiusura anticipata sembra offrire un rimedio rispondente alle indicazioni provenienti da Strasburgo. A meno che le pretese dei creditori e del debitore non si concentrino sui crediti o beni oggetto delle procedure pendenti di cui all’art. 234CCII. Ma in tal caso, almeno rispetto ai creditori, prima di propendere per la responsabilità dello Stato, dovrebbe comunque valutarsi l’imputabilità ai suoi organi del protrarsi della procedura e, in caso positivo, la misura dell’indennità non dovrebbe comunque prescindere dalla constatazione che la liquidazione giudiziale non nega ai creditori l’accesso al tribunale ma, al contrario, la agevola, semplificando le modalità di accertamento del credito e esonerando i creditori dalle spese per eventuali procedure esecutive, spese che vengono anticipate dallo Stato nell’ambito di un’unica omnicomprensiva esecuzione collettiva.
Le esenzioni da responsabilità
Sulla scia delle considerazioni dottrinali in materia (si veda Gaetano Presti, Le banche e la composizione negoziata della crisi, in www.dirittodellacrisi, 9 febbraio 2023, 6 e ss., e la letteratura ivi richiamata), l’art. 5, comma 3, lett. c), del d. lgs. 136/24 ha modificato il comma 5 dell’art. 16, precisando, anzitutto, che non solo la notizia dell’accesso alla composizione negoziata della crisi, ma neppure il coinvolgimento nelle trattative costituiscono di per sé causa di sospensione e di revoca delle linee di credito concesse all’imprenditore o ragione di una diversa classificazione del credito. In altri termini, la sospensione o la revoca delle linee di credito, così come la classificazione dei crediti come deteriorati potrà farsi solo alla stregua di un’analisi del progetto di piano e della disciplina di vigilanza prudenziale, senza alcun automatismo conseguente al mero fatto dell’accesso alla composizione negoziata.
Secondo quanto indicato nella relazione illustrativa, scopo della modifica è quello di bilanciare l’esigenza dell’impresa di continuare ad avere liquidità con l’opposta esigenza degli istituti di credito di non erogare finanziamenti a discapito della sana e prudente gestione e dell’osservanza delle disposizioni in materia creditizia. Stabilendo che l’accesso alla composizione di per sé non porta ad una diversa classificazione del credito, si sottolinea, infatti, “la necessità che gli istituti bancari valutino, di volta in volta, se l’impresa che apre le trattative si trovi effettivamente in una situazione di difficoltà tale da determinare l’applicazione della normativa prudenziale, tenuto conto delle sue condizioni ma anche e soprattutto del progetto di piano che viene depositato e quindi delle concrete prospettive di risanamento”.
La “disciplina di vigilanza prudenziale” menzionata dalla norma ricomprende, sempre secondo quanto indicato dalla relazione illustrativa, il Regolamento 575/2013 relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento e le linee guida emanate dall’Autorità Bancaria Europea (EBA). Tra queste vanno considerate, in particolare, le Guidelines EBA/GL/2017/01 sull’applicazione della nuova definizione di default ai sensi dell’art. 178 del Regolamento 575/2013, le Guidelines EBA/GL/2020/06 in materia di concessione e monitoraggio dei prestiti e le Guidelines EBA/GL//2018/10 sulle posizioni non performing e oggetto di misure di concessione. A livello nazionale, la relazione rinvia alle Disposizioni di Vigilanza emanate dalla Banca d’Italia e, in particolare, alla Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013, recante Disposizioni di Vigilanza per le Banche.
In applicazione di detta disciplina e, in particolare, dell’art. 178 del Regolamento 575/2013, è possibile individuare due categorie di crediti deteriorati (cd “non performing loans” o NPL):
a) le esposizioni creditizie rilevanti (ovvero che superano i 500 euro o i 100 euro per le esposizioni al dettaglio e l’1% dell’esposizione complessiva del debitore) scadute da oltre 90 giorni (cd. “Past Due” o inadempimenti persistenti); b) le inadempienze probabili senza l’intervento della banca, ad esempio tramite escussione delle garanzie (cd. “Unlikely to pay” o UTP o inadempienze probabili). Ad essi la circolare della Banca d’Italia n. 272 del 30 luglio 2008 aggiunge le sofferenze ovvero le esposizioni creditizie nei confronti di un soggetto in stato di insolvenza, anche non dichiarata, o in situazioni equiparabili. |
Per effetto della novella può, oggi, senz’altro escludersi che l’accesso al percorso e la fase di trattative giustifichino ex se una degradazione del credito a “inadempienza probabile” (“Unlikely to pay” o “UTP”), ferma la sua classificazione come deteriorato per effetto del ritardo di oltre 90 giorni in un pagamento rilevante (“Past Due”).
Ove, però, la valutazione del piano effettuata dall’istituto di credito alla stregua della normativa sulla vigilanza prudenziale conduca, comunque, a ritenere probabile l’inadempimento o ravvisi una situazione di insolvenza in atto, il credito potrà essere qualificato come “default”.
Parimenti, ferma l’impossibilità di ritenere l’accesso alla composizione negoziata e il coinvolgimento nelle trattative ex se quali giuste cause di sospensione o revoca delle linee di credito, ciò non precluderà alle banche di adottare tali misure ove giustificate alla stregua di altre motivazioni. Si noti che la norma parla oggi di “linee di credito” e non più di “affidamenti bancari”. Il legislatore ha voluto così rispondere ai dubbi sollevati in dottrina in merito all’ambito di applicazione della disposizione, se da limitare alle aperture di credito e forme assimilate (Giovanni Falcone, Affidamento bancario e composizione negoziata della crisi, in www.dirittobancaemercatifinanziari.it, 75; Gaetano Presti, Le banche e la composizione negoziata della crisi, cit., 12) o da estendere anche ad altre forme di finanziamento, quali il mutuo (Sido Bonfatti, La nuova finanza bancaria, in www.dirittodellacrisi.it, 14 dicembre 2021, 17-18). La riformulazione conduce, evidentemente, ad optare per la prima soluzione.
In caso di sospensione o revoca (rectius: recesso), in coerenza con il disposto dell’art. 25decies, l’istituto di credito dovrà darne comunicazione agli organi di amministrazione e controllo dell’impresa. Invertendo l’onere probatorio circa l’eventuale uso abusivo del recesso ad nutum configurato in giurisprudenza (Cass., sez. I, 22 dicembre 2020, n. 29317, in Studium juris, 2021, 7-8, 948), la novella aggiunge che la comunicazione dovrà indicare le ragioni specifiche della decisione assunta.
In difetto di previsioni sanzionatorie, permangono, però, i dubbi circa le conseguenze dell’eventuale mancata osservanza degli obblighi posti dalla disposizione in esame. In giurisprudenza, alla tesi secondo cui l’unico rimedio alla assoluta inerzia dei creditori è costituito dalla proroga delle misure protettive, come misura di persuasione indiretta alla partecipazione alle trattative (Tribunale Napoli Nord, 4 giugno 2024, in www.ilcaso.it, sez. giurisprudenza, 31413, 10 giugno 2024), si affianca quella che, con specifico riferimento all’omessa comunicazione e, quindi, anche all’omessa motivazione della decisione di sospendere gli affidamenti, ha ordinato all’istituto di credito di dare esecuzione ai contratti pendenti, fissando un’indennità ex art. 614 bis c.p.c. per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento, salva la revoca o sospensione degli affidamenti nel rispetto di quanto stabilito dall’art. 16, comma 5, CCII (Tribunale di Verona, 22 gennaio 2024, in www.ilcaso.it, sez. giurisprudenza, 30675, 20 febbraio 2024).
Per il caso di prosecuzione del rapporto, invece, onde scongiurare il rischio di future azioni di abusiva concessione del credito ed incoraggiare l’erogazione di liquidità alle imprese, l’art. 16, comma 5, introduce una inedita causa di esclusione da responsabilità, prevedendo che la prosecuzione del rapporto non è di per sé motivo di responsabilità della banca e dell’intermediario finanziario. La prosecuzione delle linee di credito in essere, quindi, viene sottratta dal legislatore alla giurisprudenza di legittimità volta a ritenere abusivi i finanziamenti erogati in mancanza di fondate prospettive, in base a ragionevolezza e ad una valutazione ex ante, di superamento della crisi (così, da ultimo, Cass., sez. I, 27 ottobre 2023, n. 29840).
La disciplina dettata dall’art. 16, comma 5, va coordinata con le regole contenute nell’art. 18, commi 5 e 5 bis, a loro volta introdotte dall’art. 5, comma 5, lett. c), del correttivo. La disposizione già prevedeva, in attuazione dell’art. 7, paragrafo 5, della direttiva 2019/1023, che i creditori nei cui confronti sono disposte le misure protettive non possono unilateralmente rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti, provocarne la risoluzione, anticiparne la scadenza, modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto del mancato pagamento di crediti anteriori rispetto alla pubblicazione dell’istanza di accesso alla composizione negoziata. Il d. lgs. 136/24 è intervenuto a chiarire che tale divieto opera anche rispetto alle banche, agli intermediari finanziari, ai mandatari e cessionari dei loro crediti, parimenti escludendo la possibilità di revocare in tutto o in parte le linee di credito già concesse. In altri termini, non solo l’accesso alla composizione negoziata ed il coinvolgimento nelle trattative, ai sensi del già esaminato art. 16, ma neppure la richiesta di misure protettive in presenza di precedenti inadempimenti appare idonea a giustificare la revoca delle linee di credito in essere, oltre che il ricorso ai rimedi previsti per i casi di inadempimento in relazione alle altre tipologie di contratti bancari.
Il correttivo ha, però, mantenuto la possibilità di sospendere i contratti pendenti fino alla conferma delle misure protettive richieste, aggiungendo che resta ferma anche la sospensione delle linee di credito disposta prima della domanda di misure protettive, in applicazione della disciplina di vigilanza prudenziale. Come evidenziato in dottrina, quindi, vige il principio della priorità temporale e della prevalenza delle regole della vigilanza prudenziale già applicate, atteso che gli effetti delle misure protettive non impattano retroattivamente sulle sospensioni e revoche già disposte e nemmeno impongono la verifica dei presupposti della vigilanza prudenziale (Antonino La Malfa, Le modifiche apportate dal D.lgs. 136/ 2024 alla procedura di composizione negoziata della crisi, in ilQuotidianogiuridico, 16 ottobre 2024).
Dovrebbe inoltre desumersene che, di contro, ove le misure protettive non vengano richieste la sospensione o la revoca delle linee di credito a causa di pregressi inadempimenti sia possibile. Così come appare possibile in relazione ad inadempimenti successivi alla richiesta di misure protettive (cfr. Gaetano Presti, Le banche e la composizione negoziata della crisi, cit., 15-16).
In conformità a quanto visto in relazione all’art. 15, anche nell’art. 18, comma 5, è stata, inoltre, introdotta una causa di esclusione della responsabilità delle banche e degli intermediari finanziari, per il caso in cui venga assicurata la prosecuzione del rapporto in pendenza del provvedimento di conferma delle misure protettive richieste.
Una volta che tale conferma sia intervenuta, invece, ai sensi del neo-introdotto comma 5bis le banche, gli intermediari finanziari, i mandatari e i cessionari dei loro crediti non potranno mantenere la sospensione delle linee di credito se non dimostrando che la sospensione è determinata dall’applicazione della disciplina di vigilanza prudenziale.
Si è osservato, in dottrina, che l’estensione alla sospensione e revoca delle linee di credito della disciplina dei rapporti pendenti mostra una certa discontinuità con il regime degli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa e della convenzione di moratoria, che escludono espressamente che l’estensione del piano ai creditori non aderenti possa tradursi in nuova erogazione di credito (Luciano Panzani, Lo schema di decreto correttivo del codice della crisi. Prime considerazioni, cit., 28-29; Sido Bonfatti, La nuova finanza bancaria, cit., 19). In senso opposto si evidenzia, tuttavia, come, in sede di composizione negoziata, si tratta solo di far permanere gli effetti di un contratto preesistente, che era stato spontaneamente stipulato e non di addivenire alla creazione di un rapporto negoziale (Gaetano Presti, Le banche e la composizione negoziata della crisi, cit., 13).
Il provvedimento giudiziale di conferma delle misure protettive non travolge la sospensione disposta per ragioni di vigilanza prudenziale, salva l’inversione dell’onere probatorio a carico della banca, in applicazione del principio di vicinanza della prova, circa l’esistenza di tali ragioni.
Anche in tal caso, infine, in conformità con quanto previsto dall’art. 16, comma 5, si dispone che la prosecuzione del rapporto non è di per sé fonte di responsabilità per la banca.
L’art. 12, comma 2, lett. b) del d. lgs. 136/24 ha inserito nell’art. 44 un nuovo comma 1bis secondo cui, anche in pendenza della domanda prenotativa per l’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza, restano sospesi gli obblighi a tutela del capitale sociale contemplati dagli artt. 2446, commi secondo e terzo (obbligo di riduzione del capitale sociale per perdite per le s.p.a.), 2447 (obbligo di riduzione del capitale sociale e contemporaneo aumento o trasformazione per le s.p.a.), 2482-bis, commi quarto, quinto e sesto (obbligo di riduzione del capitale sociale per perdite per le s.r.l.) e 2482-ter (obbligo di riduzione del capitale sociale e contemporaneo aumento o trasformazione per le s.r.l.) del codice civile, e non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, n. 4, (per le s.p.a., s.r.l. e s.a.p.a) e 2545-duodecies (per le società cooperative) del codice civile.
Resta invece fermo, per il periodo anteriore al deposito della domanda prenotativa, e salvo quanto previsto dall’articolo 20CCII in relazione alla sospensione degli obblighi e delle cause di scioglimento citate in caso di accesso alla composizione negoziata, l’obbligo degli amministratori di gestire la società al fine di conservare l’integrità e il valore del patrimonio sociale, ai sensi dell’art. 2486 c.c..
Il nuovo art. 44, comma 1bis, riproduce il disposto dell’art. 182sexies l. fall., già replicato, rispetto agli accordi di ristrutturazione e al concordato preventivo, dagli artt. 64, comma 1, e 89, comma 1, CCII. Queste ultime disposizioni sono, peraltro, state mantenute ferme e, anzi, arricchite esse pure con il riferimento all’art. 20CCII, inserito al comma 2 degli artt. 64 e 89 dagli artt. 16, comma 7, lett. a), e 21, comma 5, lett. b), del correttivo.
Se peraltro, anche prima dell’ultima novella, non vi era dubbio quanto all’operatività della sospensione della regola “ricapitalizza o liquida” nella fase prenotativa per l’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi, le pertinenti disposizioni del CCII non risultavano particolarmente felici. Il problema non si poneva, per vero, per la proposta di accordo di ristrutturazione con richiesta di misure protettive, essendo espressamente prevista dall’art. 64, comma 1, la sospensione delle regole a protezione del capitale sociale sopra richiamate anche in tal caso e non solo a fronte della domanda di omologazione di un a.d.r.. Tale sospensione non appariva, invece, chiaramente formulata rispetto al pre-concordato e alla domanda prenotativa del piano di ristrutturazione omologato. Seppure in senso favorevole si era espressa pacificamente la dottrina (Franco Michelotti, Commento sub art. 89, D.Lgs. 14/2019, in Codice della Crisi d’impresa commentato in One LEGALE; Valentino Lenoci, sub art. 64bis, in Fabrizio di Marzio (a cura di), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Giuffré, Milano, 2022, 275), di opposto avviso era andata una pronuncia di merito evidenziando come l’art. 89CCII non contenesse più il riferimento, invece presente nell’art. 182-sexiesl. fall., alla domanda prenotativa, mentre per il p.r.o. l’art. 64bis CCII si limitava a rinviare all’art. 89CCII (Trib. Arezzo, 7 novembre 2022, Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 28323 – pubb. 07/12/2022).
Il correttivo ha, pertanto, il pregio di conformare la lettera delle norme all’intentio legis e alla prassi applicativa, fugando ogni eventuale dubbio circa l’anticipazione della regola “ricapitalizza o liquida” alla fase prenotativa del procedimento unitario, a prescindere dallo specifico strumento di regolazione della crisi per cui l’imprenditore ritenga di optare (che, del resto, non deve essere necessariamente determinato in tale fase). Come detto, viene parimenti ribadita l’applicazione dell’art. 2486 c.c. per la fase antecedente al deposito della domanda prenotativa, salva la disciplina dettata per la composizione negoziata. Analogamente a quanto rilevato con riferimento alle disposizioni contenute negli artt. 64 e 89 citati [Tommaso Ariani, Disciplina della riduzione del capitale per perdite in caso di presentazione di domanda a concordato preventivo (nota a Trib. Ancona 12 aprile 2012), in Fallimento, 2013, 1, 118-119], deve pertanto confermarsi che, se il deposito della domanda prenotativa esonera da responsabilità gli amministratori per l’eventuale inosservanza delle disposizioni codicistiche anzidette fino allo scadere del termine assegnato, non sana, invece, le responsabilità già maturate, né fa venir meno lo scioglimento già deliberato e pubblicizzato.
Le azioni risarcitorie e di responsabilità
Nel precisare la nozione di “valore di liquidazione”, contenuta all’art. 87, comma 1, lett. c) ma di applicazione trasversale, l’art. 21, comma 3, lett. b, del d. lgs. 136/24 ha indicato, per quanto interessa in questa sede, che in tale valore occorre ricomprendere anche le ragionevoli prospettive di realizzo delle azioni esperibili, al netto delle spese, dal curatore in caso di liquidazione giudiziale. Ed è indubbio, come del resto indicato nella relazione di accompagnamento, che tra tali azioni debbano ricomprendersi anche quelle risarcitorie collegate alla liquidazione giudiziale, come, ad esempio, le azioni di responsabilità.
D’altro canto, le azioni risarcitorie, ma anche recuperatorie, continuano a rientrare nel contenuto obbligatorio del piano concordatario, a norma della lett. h) dell’art. 87, e tra tali azioni l’art. 115, comma 2, CCII, menziona l’azione sociale di responsabilità che deve essere esercitata o, se pendente, proseguita dal liquidatore giudiziale a prescindere da eventuali patti contrari che non sono opponibili né a lui, né ai creditori sociali. Va, però, evidenziato che prima della riforma l’applicazione della norma era limitata, per espressa indicazione della rubrica, al concordato con cessione dei beni. Tale precisazione è stata rimossa dall’art. 26, comma 4, del correttivo, con l’effetto di riconoscere la legittimazione all’esperimento delle azioni ex artt. 2393 e 2393bis c.c., al liquidatore giudiziale in qualsiasi tipo di concordato, dunque anche di quello in continuità. Le determinazioni circa l’opportunità di esperire le dette azioni sono, dunque, oggi sottratte alla competenza dell’assemblea anche in tale ultimo istituto. Conseguentemente, anche in difetto di beni da liquidare, il tribunale potrà dover procedere alla nomina di un liquidatore giudiziale deputato all’esperimento o prosecuzione delle azioni di responsabilità, ai sensi dell’art. 114bis, comma 1, ove dal piano concordatario ex art. 87CCII, o eventualmente anche dalla relazione del commissario giudiziale ex art. 105CCII, emergano concrete prospettive di recupero.
L’art. 26, comma 5, del d. lgs. 136/24 ha cercato di migliorare anche il tenore dell’art. 116CCII, concernente le operazioni di trasformazione, fusione e scissione previste dal piano di concordato. In particolare, superando le perplessità avanzate dalla dottrina al riguardo (si vedano i riferimenti in Valentino Lenoci, sub art. 116, in Fabrizio di Marzio (a cura di), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Giuffré, Milano, 2022, 527) e limitando l’analisi a quanto rilevante in questa sede, il comma 2 della disposizione chiarisce che (non più l’invalidità della deliberazione ma) le eventuali opposizioni dei creditori della società debitrice e delle altre società partecipanti nei confronti delle operazioni di trasformazione, fusione o scissione devono essere fatte valere in sede di opposizione all’omologazione. Il riferimento alle opposizioni piuttosto che alla “validità” delle operazioni in esame consente di riferire la disposizione alla sola opposizione dei creditori prevista dagli artt. 2500-nonies, 2503 e 2506-ter c.c., in conformità, d’altro canto, con quanto espresso dalla relazione di accompagnamento secondo cui si è voluto correggere “l’errore rappresentato dal riferimento alla “validità” delle operazioni, anziché alle questioni che possono essere fatte valere dai creditori nelle opposizioni previste dal codice civile quando la società non è in crisi o insolvente”.
La norma continua a non occuparsi della posizione dei soci, rispetto ai quali pure ci si era interrogati se potessero avvalersi esclusivamente del rimedio dell’opposizione all’omologa o anche dell’impugnativa secondo le disposizioni societarie.
Considerata anche l’eliminazione del rinvio alla disciplina codicistica “in quanto compatibile”, prima contenuta nel comma 4 della disposizione in esame, la nuova formulazione di quest’ultima norma rafforza l’opinione secondo cui ogni contestazione concernente l’operazione straordinaria debba confluire nel giudizio di omologazione (così Massimo Fabiani, L’omologazione del nuovo concordato preventivo, in Il fallimento, 2020, 1316).
Le deliberazioni delle società diverse da quella concordataria restano, invece, assoggettate alla disciplina del codice civile, circostanza di cui è ben conscio il legislatore allorché, nella relazione di accompagnamento, specifica che l’obiettivo della disposizione resta quello di coordinare, “per quanto possibile, tenuto conto del fatto che le deliberazioni possono essere anche quelle adottate dalle società diverse dalla debitrice” i rimedi ivi contemplati con quelli previsti dal codice civile in tema di impugnativa delle deliberazioni.
L’art. 116, comma 4, ribadisce, nondimeno, che una volta intervenuta la sentenza di omologazione, anche se non passata in giudicato, l’invalidità delle deliberazioni di trasformazione, fusione o scissione non può più essere pronunciata, aggiungendo che gli effetti delle operazioni basate sulle deliberazioni anzidette sono irreversibili ma resta salvo il risarcimento del danno eventualmente cagionato dalla relativa invalidità. La norma dà così attuazione al principio sancito dall’art. 6, comma 2, lett. c), n. 2, della legge n. 155/2017, recependo il disposto degli artt. 2550 bis e 2504 quater c.c.. Si stabilisce, inoltre, che il credito risarcitorio ha carattere prededucibile, in difetto di diversa specificazione, sia nei confronti dei soci che dei terzi creditori.
Il principio di irretrattabilità delle operazioni societarie comporta che esse rimangano ferme anche in caso di risoluzione o annullamento del concordato. In tal senso, d’altro canto, si esprimeva chiaramente il comma 3 dell’art. 116, nella sua formulazione previgente.
Di tali ipotesi si occupa oggi il nuovo art. 116, comma 5, che rinvia, per il diritto al risarcimento del danno, alla disciplina del comma 4, estendendone l’applicazione anche ai casi di revoca ex art. 53CCII.
Ulteriore modifica, apportata dall’art. 36, comma 1, del d.lgs. 136/24, ha interessato l’art. 215CCII, il quale, nella sua nuova formulazione, esplicita che il curatore può cedere, oltre alle azioni revocatorie, anche le azioni risarcitorie e recuperatorie pendenti e ciò, spiega la relazione di accompagnamento, al fine di agevolare la rapida conclusione della procedura. Già con riguardo alla pressoché identica formulazione dell’art. 106l. fall., si era, del resto, evidenziato come scopo della norma fosse quello di evitare rallentamenti all’attività liquidatoria nell’attesa della definizione dei giudizi pendenti. Ma il riferimento ai crediti contestati, affiancato alle azioni revocatorie concorsuali, aveva indotto parte della dottrina a ritenere che tutte le azioni dirette a conseguire incrementi del patrimonio del debitore, ivi comprese le azioni di responsabilità, potessero essere oggetto di cessione. Parimenti, il riferimento alle azioni revocatorie concorsuali era stato interpretato in senso lato, in modo da ricomprendere oltre alle azioni revocatorie di massa, anche le revocatorie ordinarie e le azioni di inefficacia. La trasfusione dell’art. 106l. fall. nell’art. 215CCII aveva acuito i dubbi interpretativi poiché, se la rubrica della nuova disposizione si riferiva specificamente alle azioni revocatorie e non alle azioni in genere, come il suo antecedente normativo, la relazione illustrativa menzionava genericamente la cessione delle azioni. Il d.lgs. 136/24 è, così, intervenuto a fugare i dubbi in materia, recependo l’interpretazione più lata delle disposizioni previgenti ed estendendo, così, la cedibilità anche alle azioni risarcitorie e recuperatorie, purché pendenti. Parimenti, si è generalizzato il riferimento alle azioni revocatorie mediante elisione dell’aggettivazione “concorsuali”, in modo da ricomprendere, come detto innanzi, anche le azioni revocatorie ordinarie.
Il correttivo non si è cimentato, invece, con i dubbi concernenti l’eventuale applicazione analogica dei divieti di cessione previsti dall’art. 240CCII per il concordato nella liquidazione giudiziale, né con le perplessità concernenti le sorti del giudizio pendente, una volta intervenuta la cessione, in particolare con riferimento all’eventuale opposizione all’estromissione del curatore, l’interruzione di quest’ultimo, nonostante il titolo particolare della successione, e la tutela del terzo che restano, così, affidate all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale (si vedano, in proposito i riferimenti in Federico Rolfi, sub art. 215, in Fabrizio di Marzio (a cura di), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Giuffré, Milano, 2022, 1080).
Va, infine, ricordata la modifica apportata dall’art. 46, comma 1, del d. lgs. 236/24 in relazione alla procedura unitaria di gruppo di cui deve sempre disporsi la separazione nell’ipotesi di cui all’art. 291, comma 1, ultimo periodo, ovvero quando il curatore intenda esercitare l’azione di responsabilità nei confronti delle imprese del gruppo. Secondo la relazione di accompagnamento, infatti, dall’esercizio di azioni di responsabilità possono derivare conflitti di interessi tra le imprese del gruppo e quindi tra le ragioni dei creditori della singola società del gruppo, non facilmente gestibili all’interno di una procedura unitaria perché la nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 c.p.c. sarebbe strumento insufficiente. Come evidenziato in dottrina, questa valutazione del legislatore si distingue dall’orientamento assunto dalla maggior parte degli ordinamenti stranieri che hanno ritenuto il ricorso al curatore speciale quale rimedio sufficiente per gestire i conflitti di interessi tra le imprese del gruppo e quindi tra le ragioni dei creditori della singola società del gruppo normalmente scaturenti dall’esercizio di azioni di responsabilità (Luciano Panzani, Lo schema di decreto correttivo del codice della crisi. Prime considerazioni, cit., 85). Soprattutto, la soluzione adottata confligge con il principio unionale di contenimento dei costi, imponendo, a fronte dello “smembramento” della procedura unitaria, la nomina di distinti curatori e giudici delegati (la necessità della nomina di un comitato dei creditori per ciascuna impresa del gruppo sussiste, invece, anche nell’ambito della procedura unitaria, in quanto corollario del principio di autonomia delle masse passive).
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